Agosto è il mese migliore per osservare il mondo. Perché è connotato da un ostentato disimpegno: anche la mia impegnatissima bolla social è satura di tracce vacanziere, mentre le guerre e i loro tragici risvolti delle ultime ore sembrano dimenticate. Per un breve periodo sembrerebbe non solo lecito ma anche salutare ignorarle. Come se il mondo intorno a noi fosse parte del nostro lavoro: quando andiamo in ferie possiamo chiudere anche le sue saracinesche.

I creator

Ma non è di questo che vorrei parlare, almeno non direttamente. Chi ha una qualche dimestichezza coi social non può non aver notato che ormai tantissime persone si autodefiniscono come “creator digitale”. Il fenomeno – ovviamente non mi riferisco a quelli che fanno questo mestiere per davvero – è noto e alcuni tratti non vanno ignorati. In primo luogo la realizzazione della promessa di democratizzazione dei mezzi di produzione: all’apparenza proprio tutti possono non solo subire un processo ma crearlo. Basta avere buona volontà, fantasia e qualche conoscenza dei segreti digitali. Il quarto d’ora di celebrità è diventato quasi come il reddito di cittadinanza: è l’unico diritto che si garantisce a coloro per i quali si è scelto contemporaneamente di abolire ogni diritto.

Ciò appare ancor più vero se riconosciamo che buona parte di coloro che si autodefiniscono creator digitali non vivono come tali. Anche questo è un fenomeno studiato e uno degli effetti più evidenti della fine della società del lavoro: ci sono intere generazioni che si sostentano con un lavoro che non riconoscono come il proprio lavoro. Questo evento ha un effetto politico non di poco conto, anche a sinistra. Sono certo che i creator digitali si autodefiniscono tali non solo se devono fare i conti con lavori poveri o con la precarietà diffusa, ma anche se hanno la fortuna di avere un contratto a tempo indeterminato. Lo descrive perfettamente Marco Revelli nel suo ultimo libro, Questa sinistra inspiegabile a mia figlia (Einaudi): «Prendi la tipa della terza intervista, se la tua Fata Turchina con la bacchetta magica le avesse trasformato il contratto a somministrazione in un tempo indeterminato, come pensi che avrebbe reagito all’idea di fare la commessa di Sephora a vita? Ogni maledetto giorno di ogni maledetto mese di ogni maledetto anno, per quarant’anni filati, a ricevere madame in profumeria e a dovergli pure sorridere. Credi davvero che lì avrebbe trovato la risposta alla sua ansia di sapere chi sia e alla sua paura di non essere nessuno?».

Con una battuta: anche il lavoro politico e sindacale oggi non può limitarsi a rispondere alla prima domanda, ma deve occuparsi dell’ultima: se generazioni intere si autoarruolano tra le fila dei creator digitali, vuol dire che la politica e la sinistra non sono più in grado di proporre un modello alternativo all’ansia di sapere chi siamo e alla paura di scomparire. Così l’unica via di fuga che troviamo sta nel rifugio digitale.

La rimozione

C’è però un prezzo da pagare. La rimozione di quella che tradizionalmente si chiamava creaturalità. L’essere umano non è un creatore. Può inventare, immaginare, sovvertire, mobilitare cose in modo da cambiarne la funzione, ma lo può fare a partire dal suo avere ereditato un mondo di segni e di significati che lo condiziona e lo limita. E infatti, qual è la materia del potere incondizionato del creator digitale? La propria vita, il proprio corpo, le proprie vacanze. Tutto ciò che è concretamente nel mondo e che viene inquadrato dentro i social. Un’incessante trasformazione del mondo sensibile in mondo digitale, che finisce per essere un’alienazione, se non altro perché il creator digitale pensa in questo modo di vincere la resistenza del reale attraverso una creazione d’ordine differente. Per fare un esempio agostano: le vacanze non sono questa cosa che il creator digitale ostenta, una processione di eventi eccezionali e posti magnifici, come se dovessimo tutti riprodurre non più il diritto ma il dovere alla felicità. Più spesso sono giorni in cui la possibilità di mettere a distanza la propria vita produce un’inquietudine, molto più che un sollievo. Il creator digitale va incontro a un’ansia prestazionale difficile da gestire.

Quali sono le conseguenze politiche di tutto questo? Molto semplice: l’illusione che l’essere umano sia creatore è un tipico meccanismo del capitalismo per produrre competizione. Il creator digitale, mentre si illude di crearsi, sta concedendo sé stesso a funzioni economiche che definiranno la propria vita in termini di fallimento o successo. Non tutti i creator digitali diventano influencer. E il discrimine è solo la valorizzazione economica.

Creature

Alla retorica del creator digitale dovremmo opporre la dignità dell’essere creature sensibili. La sensibilità a cui faccio riferimento è del resto profondamente di sinistra: i processi digitali si reggono su sfruttamenti reali e materiali. Il creator digitale è troppo occupato a deificarsi per rendersi conto delle conseguenze materiali delle sue azioni e delle diseguaglianze concrete e simboliche che il sistema in cui è inserito produce. La creatura sensibile riporta il proprio sé al realismo del mondo materiale: riconosce di vivere in un mondo che lo costringe, per essere qualcuno, a non poter essere più se stesso. Sarà allora, forse, che il proprio bisogno di senso non sarà più soddisfatto dall’illusione di essere come un dio e di potersi creare da sé.

© Riproduzione riservata