Alla repressione dei movimenti studenteschi e giovanili si è accompagnata anche uno svuotamento di quell’apparato circolatorio della democrazia che sono le assemblee, i consigli, i collettivi. Ecco perché i ragazzi stanno imparando a diventare schiavi del potere
Fa molta impressione negli ultimi mesi vedere come le manifestazioni di dissenso, le piazze e le espressioni del conflitto in pubblico siano non soltanto stigmatizzate e represse da un governo che ha deciso di fare del controllo poliziesco la forma privilegiata di esercizio di potere (dal decreto rave alla decisione di costituirsi parte civile nei processi contro i militanti di Ultima generazione), ma squalificate anche da molte altre componenti democratiche. Il caso Roccella al Salone del libro o il livore – e la reazione penale – che suscitano le azioni dei movimenti ecologisti ci mostra gli effetti di una crisi che spesso non viene analizzata: da dove deriva l’analfabetizzazione di massa rispetto alle categorie e le pratiche della democrazia?
Possiamo lasciarci cadere le braccia quando assistiamo per giorni a dibattiti tutti astratti su dissenso e violenza, o indignarci per come sia citata sempre a sproposito l’espressione “fascismo degli antifascisti”, attribuita (da una pletora di politici che va da Matteo Salvini a Matteo Renzi) a Pasolini e da lui mai usata; ma il peggior esito della discussione intorno alle contestazioni è quello di non riconoscere la genesi di quest’analfabetizzazione al confronto politico.
L’educazione alla democrazia
Un osservatorio privilegiato per capire come nel tempo si sia degradata l’educazione alla democrazia è la storia dei movimenti studenteschi degli ultimi 25 anni. Di fatto, dopo Genova, l’ultima mobilitazione larga c’è stata sul finire degli anni zero con l’Onda. Ancora sono in carcere manifestanti del 2001 e del 2010.
Nel frattempo, nelle scuole italiane, venivano introdotti dispositivi, apparentemente innocui – il registro elettronico, il voto in condotta, o l’alternanza scuola lavoro – che hanno soffocato l’autonomia degli studenti e limitato il loro tempo per formarsi al gioco democratico.
Imparare a scrivere gli striscioni, sapere a memoria canti politici, saper organizzare un’assemblea, per esempio, sono saperi che si passano di generazione in generazione politica e che oggi spesso non hanno testimoni capaci di riconoscerne il valore. I movimenti studenteschi nell’ultimo anno hanno subito una repressione durissima: sospensioni, sei in condotta, eliminazione dei viaggi d’istruzione.
L’importanza del collettivo
Quello di cui non ci si rende conto è che senza questa vitalità si è sclerotizzato anche l’apparato circolatorio della democrazia formale che dovrebbe dare senso alla formazione democratica della cittadinanza: gli organi collegiali. Chiunque oggi abbia a che fare con consigli di classe, collegi docenti, assemblee di istituto… sa quanto sia spesso frustrante, sterile, caricaturale la partecipazione.
Pochissimi studenti usano i collettivi per ragionare intorno ai temi del loro mondo contemporaneo, ancora meno li usano per mettere in discussione il contesto in cui studiano. A luglio di quest’anno cominceremo a commemorare i cinquant’anni dalla promulgazione dei cosiddetti decreti delegati (avvenuta tra il 1973 e il 1974), ma già ora potremmo ricordarci che alle prime elezioni per eleggere rappresentanti di docenti, studenti e professori, votarono nove milioni di persone, di cui quasi la metà partecipò a almeno alle migliaia di assemblee che prepararono quelle elezioni.
Si trattava in buona parte di donne mai uscite di casa che prendevano parola per la prima volta. Non erano “anni di piombo”, era una stagione felice, che nel suo libro autobiografico che avrebbe dovuto presentare al Salone persino Eugenia Roccella ricorda come il momento di emancipazione per una donna nata e cresciuta in una provincia del meridione.
Anche Emma Bonino, che come Roccella proviene dalla famiglia radicale, prova a ricordarglielo sulla Stampa di ieri, ma non coglie come quello sguardo sul pieno di allora sia lo speculare della mancanza di credito che oggi si dà ai movimenti che lottano, contestano, si prendono denunce, affrontano processi.
Un aiuto al potere
Purtroppo anche per le ragioni della diseducazione al conflitto va guardato a quello che è accaduto in questi anni nelle scuole. Cos’è che ha prodotto questo rigurgito di paternalismo diffuso che definiamo boomerismo senza distinguerne gli elementi repressivi?
Anche qui, dobbiamo fare un po’ di storia del passato recente: l’invasione di migliaia di incontri per l’educazione alla legalità coordinati da rappresentanti delle forze dell’ordine senza nessuna qualifica pedagogica, l’introduzione di una materia confusa per statuto come l’educazione civica, e le centinaia di progetti sulla comunicazione non ostile, hanno ridotto il concetto stesso di democrazia a scuola al suo opposto: un posto in cui bisogna essere d’accordo con chi ha il potere.
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