- Esiste un prima e un dopo delle stragi rispetto all’emergere dei social? Ha senso considerare le migliaia di vittime e i miliardi di messaggi come due aspetti di un unico fenomeno?
- La crescita esponenziale degli stragisti progettuali coincide con il periodo di sviluppo e radicamento dello stile di relazione e comunicazione a mezzo social.
- O i social cambiano di mano e da servizi profittevoli diventano strumenti di missione, oppure ce li teniamo come sono, sapendo che le stragi sono una parte del prezzo che paghiamo
Esiste un prima e un dopo delle stragi rispetto all’emergere dei social? Ha senso considerare le migliaia di vittime e i miliardi di messaggi come due aspetti di un unico fenomeno?
L’andamento delle stragi in USA
Le stragi ovviamente c’erano anche quando ai social nessuno pensava. Basta digitare “mass shootings” e Wikipedia, capita l’antifona, ne presenta il rendiconto in Usa, a partire dal 1920 fino all’ultima tragedia nella scuola di Uvalde. Di ogni caso riportando gli autori, le cause, le dinamiche, i morti e i feriti da pallottole.
I primi anni Venti hanno registrato stragi invereconde, assalti di bianchi inferociti alle case e alle botteghe afroamericane (celeberrimo, fra i tanti, il pogrom nel 1921 di Tulsa in Oklahoma, rivisitato solo da ultimo in documentari e serie (WatchMen) dopo decenni di silenzio per negare quel marchio nazionale di Caino. Dati i tempi capitavano poi stragi di operai nella repressione armata di conflitti di lavoro ad opera di squadracce e Polizia né mancavano i cronici morti e feriti in occasione di rapine. Passati l’immediato e ruggente dopoguerra, per quaranta anni il fenomeno si placa riducendosi alle azioni della criminalità comune. Forse perché la Grande Crisi ha spento le fiamme anzi che alimentarle, forse per l’aiuto del New Deal, di certo con l’aiuto delle magnifiche sorti e progressive del sogno americano che vince la guerra contro Germania e Giappone, i rivali strategici, e si distende sereno fino alla metà dei fatidici sessanta. Ma a questo punto le stragi di stampo “politico” riprendono spinte degli scontri razziali e dalle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam e compare anche qualche avvisaglia di sparatori dai moventi misteriosi, nel senso che compiono stragi di cui nessuno si sa capacitare esattamente come nell’ultimo episodio in Texas. Dalla seconda metà dei Sessanta il fenomeno stragista è cresciuto fino alla fine del millennio triplicando progressivamente decennio da 1,2 a 3,5 il conto delle vittime mensili. Il primo decennio del secolo conferma un passo analogo, ma manca di salire fino a 4 morti o feriti al mese. Quand’ecco che col secondo decennio, da cui quello in corso non pare discostarsi, si arriva a 17,4 (diciassette virgola quattro). Quattro volte l’ecatombe precedente. Da mezzo secolo, in sostanza, la madre delle stragi è, negli Usa sempre incinta, specie nei rural States pieni di elettori, in gran parte repubblicani, armati fino i denti. Ma il salto di scala è avvenuto negli ultimi tre lustri in misura incomparabilmente più elevata rispetto ai periodi precedenti.
Gli stragisti progettuali
Il motore della crescita stragista nel periodo più recente viene dalle imprese degli “stragisti progettuali” che non si muovono d’impulso, ma maturano a lungo e nel profondo la voglia di sparare, come sbocco di una sorta di percorso formativo. Ecco dunque nel 2006, l’impiegato che “di colpo” e “senza ragione” abbatte i colleghi nel parcheggio, il divorziato che penetra e fa strage nell’ufficio della moglie (un format ripetuto), il guidatore Uber che va in giro e ammazza a caso, l’odiatore di gay, quello che odia in grande e stermina a mitraglia un’intera discoteca. Fino al cupo diciottenne che fa strage nella sua ex scuola elementare.
Stragismo progettuale e incubazione social
La crescita esponenziale degli stragisti progettuali coincide con il periodo di sviluppo e radicamento dello stile di relazione e comunicazione a mezzo social. Ma una coincidenza temporale non basta certamente ad affermare che fra i due fenomeni possa esservi un rapporto causa-effetto. Al massimo può guidare nella ricerca degli indizi.
Ad esempio, Kara Swisher, analista del New York Times, mentre confessa il proprio smarrimento a fronte della sfida di “comprendere” il fenomeno stragista, annota (citando il caso del supermarket di Buffalo ricalcato su un precedente accaduta in Nuova Zelanda e ovviamente esibito in Rete) che non c’è strage che non riveli una dimensione social tutt’altro che casuale. Sia perché lo stragista collezionava ossessioni, paranoie, suggerimenti circa il cosa e il come agire per colpire, sia per la cura posta a rivendicare con video e messaggi nella piazza social il segno lasciato dal proprio passaggio sulla Terra e nella Rete. C’è poi chi come il governatore Abbot eletto dai texani, e noto per proporre di fronteggiare gli stragisti armando gli insegnanti, che vede il nesso strage-social, ma a fini di scarica barile e prendersela con Facebook che non ha avvistato la strage nei messaggi (che in effetti, letti a posteriori, la lasciavano in qualche modo preannunciare a partire dall’esibizione delle armi). Anche i genitori delle vittime, comprensibilmente disperati, cercano nei social un punto responsabile per non aver saputo prevenire.
Il punto drammatico, tuttavia, è che se i social, se davvero sono parte del problema, lo sono come qualcosa che dipende da chi li usa. Il carattere “sociale” potenzia in genere chi con l’animo leggero si occupa di avvisi, compleanni, confidenze, esibizioni di pareri, commenti, gatti e bambini. In questa dinamica, come da sempre nella vita, i simili si pigliano, il romantico trova l’anima gemella, l’analitico il complemento concettuale, il gattaro un compagno di passione. Ma si trovano anche il cupo con il cupo e l’isolato con chi sta messo pure peggio. Così la loro socializzazione non è un’uscita dall’isolamento, ma l’ingresso in una camera d’eco dove nessuno t’allunga la leva per essere diverso. Quindi se stai male starai peggio.
Un problema senza quadra
Un problema senza quadra sul quale la sorveglianza e la “moderazione” dei contenuti sono indicate quanto le forchette con il brodo.
Le imprese social, intanto, nascono per “dare voce a chiunque” e dunque per la pesca a strascico del selvaggio, non importa se feroce oppure buono, proprio come collaudò una tantum Radio Radicale quando nel novembre 1993 raccolse quello che raccolse nella segreteria ritrasmessa in onda pari pari. A mantenere salda questa impostazione milita ovviamente la circostanza che tutto questo traffico, cattivo o buono, i social se lo vendono.
Per non rompere il giocattolo e tenersi il traffico a valanga i Big Tech hanno assunto agli occhi degli immancabili Tartufi il ruolo di moderatori, cancellando le parole “eccessive” e le immagini “sconce”. Ma è una rincorsa senza fine, un chiudere la stalla quando i buoi sono fuggiti tant’è che l’irrisolvibile di fatto viene risolto nell’orizzonte senza fine dell’Intelligenza Artificiale che riuscirà, si dà per certo, nella moderazione efficace e tempestiva. Ma guarda caso, riferito dal Washington Post, il distretto di Uvalde disponeva per l’appunto di un programma di Intelligenza Artificiale che “esplorava i social per individuare le minacce anche anni prima dell’attacco”.
Saremmo quindi per concludere che o i social cambiano di mano e da servizi profittevoli diventano strumenti di missione, oppure ce li teniamo come sono, sapendo che anche le stragi sono una parte del prezzo che paghiamo.
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