- La Lega ha sempre avuto due anime che nelle condizioni straordinarie dettate dall’emergenza-Covid, sembrano destinate a divaricarsi fino a far prefigurare un vero e proprio strappo.
- Umberto Bossi ha sempre pensato la Lega come un partito populista e ha fatto di tutto per mantenerlo in quel solco.
- Aver portato la Lega nel governo presieduto da Mario Draghi stato per Giorgetti un notevole successo; ma il limite della sua strategia è che essa comporta una partita “a perdere” per il suo stesso partito.
«Populismo regionalista». Con questa stringata formula, il sociologo Roberto Biorcio descrisse nel 1991 quello che all’epoca gli appariva come il punto d’arrivo dell’evoluzione della Lega, partita da un rigoroso federalismo per poi adattarsi alle condizioni offerte dalla competizione politica. Accostandola al Front national di Jean-Marie Le Pen, Biorcio scriveva che in quel soggetto si ritrovavano tutti i caratteri tipici dei movimenti populisti classici: il riferimento al popolo come unità sociale omogenea e sede esclusiva di valori positivi e permanenti, la sua incarnazione “mistica” in una leadership chiamata ad affermarne la volontà, l’ostilità verso gli estranei, la contrapposizione al sistema dei partiti, la diffidenza verso le mediazioni.
Due anni dopo, un altro dei pionieri degli studi in argomento, Ilvo Diamanti, pur riconoscendo nel Carroccio più d’uno dei tratti costitutivi della mentalità populista – non riconducibilità al conflitto destra/sinistra e alle tradizionali linee di frattura sociale, estraneità alle ideologie, uso di un gergo popolare «greve quanto immediato», insofferenza verso gli immigrati, promozione di un ceto politico fatto di persone qualunque, distacco e sfiducia nei confronti delle istituzioni, dedizione al leader, legame con le insicurezze e le paure derivanti dalla crescita delle tensioni sociali – corresse il tiro, sottolineando come la Lega fosse anche, se non soprattutto, l’imprenditore politico delle ambizioni e delle frustrazioni dei ceti produttivi del Nord Italia, l’espressione della loro comunità di interessi, il collettore di una rivolta antipartitica che innalzava le bandiere dell’efficienza e del riconoscimento del valore del lavoro svolto dai “piccoli” attori economici e chiedeva allo Stato più servizi e meno carichi fiscali.
Le due anime
In quelle due descrizioni era racchiusa la sostanza delle due anime che, con una convivenza più o meno pacifica a seconda dei momenti, hanno fatto le fortune della Lega sin dalle origini e che oggi, nelle condizioni straordinarie dettate dall’emergenza-Covid, sembrano destinate a divaricarsi fino a far prefigurare un vero e proprio strappo.
Va aggiunto però che, se entrambe quelle sensibilità hanno trovato spazio nel discorso politico leghista, la prima ha sempre svolto un ruolo più importante nel percorso di crescita e consolidamento del Carroccio, nel reclutamento dei suoi militanti e nel suo insediamento territoriale.
Umberto Bossi ha sempre pensato la Lega come un partito populista e ha fatto di tutto per mantenerlo in quel solco: lo ha guidato e modellato con lo stile, gli atteggiamenti e le parole d’ordine che a quel modello rimandavano.
La simbologia, il linguaggio, i temi propagandistici scelti – di cui i raduni annuali di Pontida erano una sorta di rituale consacrazione e riaffermazione – stanno a dimostrarlo. E ogni volta che l’anima moderata e industrialista (quella dei Pagliarini, dei Comino, degli Gnutti) è uscita allo scoperto e ha cercato di imprimere una virata “normalizzatrice”, il segretario-fondatore l’ha svergognata e decapitata, costringendo chi la vedeva con simpatia pur senza sposarne apertamente le posizioni – in genere i titolari di cariche istituzionali: sindaci, presidenti di province e di regioni – a tenersi sottotraccia nei distinguo.
Lo scandalo che ha travolto Bossi e la sua cerchia ha segnato l’unico punto di rottura di questo itinerario, consentendo l’ascesa alla segreteria di Roberto Maroni e il suo tentativo di depopulistizzazione del partito. Ma i catastrofici risultati elettorali di quell’esperimento hanno ben presto suggerito un’inversione di rotta e il ritorno al modello originario, che Salvini ha proiettato oltre i confini geografici “nordisti” grazie all’adozione dei temi che in tutta Europa facevano volare elettoralmente i partiti della stessa famiglia: lotta all’immigrazione, enfasi sull’insicurezza e rivendicazione della sovranità nazionale innanzitutto.
La fase gialloverde e Giorgetti
L’accordo con i Cinque Stelle per la costituzione dell’esecutivo gialloverde, da molti interpretato come la consacrazione – e il banco di prova – di un inedito populismo di governo, è parso sancire il grande successo di quella linea. Proprio in quel frangente, però, l’“altra Lega” ha cominciato a sentirsi messa in un angolo e ha deciso di riprendere l’iniziativa.
È stato allora che Giancarlo Giorgetti ha assunto pubblicamente il ruolo di figura portante della corrente liberale, centrista ed economicamente più spostata a destra della Lega. E il sostanzioso calo dei consensi di Forza Italia ha certamente contribuito ad intensificare le sue già buone relazioni con il potere politico, economico, corporativo e sindacale italiano e a far aumentare le manifestazioni di benevola attenzione dei media nei suoi confronti.
Nell’anno di vita del primo governo Conte, senza mai derogare allo stile pacato e quasi defilato che lo contraddistingue, l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha periodicamente ma sistematicamente distillato una serie di brevi commenti e dichiarazioni che, moltiplicandosi nel corso del tempo, tendevano ad accentuare i dissensi tra le due componenti della coalizione. Dopo il notevole successo della Lega alle elezioni europee, e in un momento in cui il gradimento per l’esecutivo oltrepassava nei sondaggi il 65 per cento, Giorgetti ha ulteriormente acuito i toni polemici, giungendo a profetizzare come imminente e inevitabile quella rottura che il proclama del Papeete di Salvini avrebbe poi decretato.
Un esito che, come forse il segretario leghista non aveva compreso, segnava, oltre che il successo della strategia del suo vice, la promozione di costui a suo alter ego e sfidante per la direzione effettiva del partito.
I fallimenti di Salvini
Alcuni successivi episodi, primi fra tutti gli insuccessi dei tentativi di spallata in Emilia-Romagna e in Toscana, condotti all’insegna del più puro stile populista, hanno incrinato ulteriormente l’immagine di Salvini, la cui ondeggiante condotta di fronte alle vicende pandemiche ha prodotto altri danni al Carroccio, sceso nelle intenzioni di voto, nell’arco di poco più di un anno, dal trionfale 37,7 per cento del luglio 2019, che avrebbe potuto assicurargli, nell’eventualità di un ticket con Fratelli d’Italia, una forte autonomia rispetto agli infidi alleati centristi, a quel 20 per cento che rischia di non farlo più primeggiare neanche nella sua coalizione. E che al contempo consacra Giorgetti, ormai sempre più apertamente spalleggiato dal presidente del Veneto Luca Zaia e dagli altri esponenti del fronte “governista”, come il vero nuovo uomo forte della Lega.
Come però l’attuale ministro dello Sviluppo economico possa far fruttare il vantaggio acquisito per volgere a proprio favore la non dichiarata ma evidente concorrenza con il segretario, non è chiaro.
Certo, aver portato la Lega nel governo presieduto da uno dei suoi più dichiarati estimatori è stato per Giorgetti un notevole successo, che la riottosità salviniana ad alcune scelte di Draghi ha tutt’altro che intaccato; ma il limite della sua strategia è che essa comporta una partita “a perdere” per il suo stesso partito. Che, qualora si fondesse con Forza Italia (o almeno con una sua parte) e riuscisse così a farsi aprire le porte del Ppe, apparirebbe più presentabile agli occhi di Confindustria e Ue, ma sicuramente perderebbe ulteriori consensi – quelli di un elettorato di protesta che gli è sempre stato fedele – a vantaggio del partito di Giorgia Meloni, nelle cui mani finirebbe un potere di condizionamento e di veto nel centrodestra analogo, anche se opposto, a quello sin qui esercitato da Berlusconi.
In altre parole, la condanna a rimanere junior partner nell’alleanza getterebbe al vento quel capitale di influenza che i successi della fase populista avevano fatto guadagnare alla Lega.
È forse per questo che il “leghista buono” si è spinto ancora oltre nel suo gioco di aperture, nei giorni scorsi, arrivando a lanciare segnali di disponibilità a Carlo Calenda (e guardando, verosimilmente, a Matteo Renzi), nella speranza di poter ricostruire in veste aggiornata quella “grande palude centrista” che aveva dominato la scena della Prima Repubblica e che potrebbe ritornare a far da perno del sistema, in una rinnovata politica dei due forni.
Resta da vedere se il progetto troverà rispondenza nell’elettorato. In primis, in quello che oggi insiste a voler votare per la Lega di Salvini.
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