Era chiaro da subito, ovunque tranne che a palazzo Chigi, che l’affaire Sangiuliano sarebbe finito con le dimissioni del ministro. Ieri sono arrivate, rovinose e tardive. Ormai non basteranno a chiudere il caso, visto che Maria Rosaria Boccia ha spiegato che intende rispondere al discredito con lo sputtanamento, ma certo a spegnere qualche riflettore.

Sulla vicenda si sono esercitati in tanti in questi giorni, si sono trattenuti solo i Fratelli d’Italia che hanno tentato di derubricarla a «gossip», e qualche finto amico che in tv ha ripetuto che se non c’era peculato non c’era notizia (poi però «siamo tutti in mano alle toghe»). Su Sangiuliano noi ci asteniamo: la vicenda personale, cioè politica, è scontata – potere e «relazioni sentimentali» – quella familiare ci spiace ma non ci riguarda, il resto è uno spasso: una risata lo seppellirà. Ma, cara presidente del Consiglio, de te fabula narratur.

Perché è di Giorgia Meloni che parla questa ennesima storia. Ancora una volta, come in altri casi imbarazzanti per il governo, la presidente si è arroccata sulla difesa costi-quel-che-costi della greffa di ex camerati, peraltro non tutti ex, che lei stessa ha voluto al governo e nelle massime istituzioni. È successo con Delmastro, Santanchè, La Russa, Mollicone, con l’ex cognato Lollobrigida, solo per stare ai burroni più spinosi in cui è scivolato palazzo Chigi. Tutti Fratelli d’Italia, beccati – lasciamo stare quale sarà il giudizio dei magistrati sui casi pendenti – con le mani in marmellate incompatibili con l’appartenenza a una forza politica che governa il paese (e che per farlo pretende nomine solo per amici e parenti stretti).

Non faremo complimenti pelosi ai loro colleghi leghisti e forzisti. Ma forse la consuetudine con le stanze dei bottoni, e con le amministrazioni locali, porta con sé, se non necessariamente una cultura di governo, almeno un principio di prudenza. Nel partito della premier invece, con poche eccezioni, emerge quotidianamente il fatto che il lungo digiuno dal potere è stato consumato nella coltivazione di ambizioni frustrate, che oggi si ribaltano nella convinzione che l’uomo (o la donna) che ce l’ha fatta (ad accaparrarsi un ministero o uno strapuntino) sia insindacabile e intoccabile, persino se platealmente fesso e vanitoso.

Lo schema del comportamento di Palazzo Chigi è fisso, non sappiamo in che proporzione frutto dell’indole della premier o dei consigli dei suoi consiglieri: una volta beccata in fallo, la presidente resiste resiste resiste. Perché si tratta dei suoi, della sua ormai conosciuta classe dirigente. Ma non basta (più) dire che questa classe dirigente è inadeguata, bisogna ricordare che è lei che l’ha scelta, uno a uno.

Alcuni per merito, e non vogliamo pensare agli scartati; altri perché alla fine sono pochi i legionari a lei fedeli e presentabili (ma quanto, si vede ogni giorno). Comunque li ha scelti lei. E se la responsabilità penale è personale, la responsabilità del ridicolo, delle opacità, delle papere seriali è della premier: dei suoi criteri, dei suoi «valori», del suo fiuto sulle persone. Che invece sono sbagliate: ma lo si vede lontano un miglio, ben prima che spari una pistola a Capodanno o che compaia qualcuno sulle rovine di Pompei.

Sbagliare è umano. Perseverare è incredibile. Ogni volta che la premier è finita nei guai per uno dei suoi, ha provato a negare l’evidenza. Perché, fa sapere stizzita, quello che deve fare «non se lo fa spiegare dalle opposizioni»: se l’opposizione dice “dimissioni”, lei resiste. Come i bambini che fanno il contrario di quello che dice la mamma: per dispetto, per confermare la propria bambinesca personalità. Un riflesso pavloviano, che ogni volta trova la sua giustificazione a palazzo: ma è un palazzo senza principio di realtà. Stavolta lì non hanno capito che dimettere Sangiuliano subito, alle prime avvisaglie di Boccia, sarebbe stata una riduzione del danno. Da subito è stato chiaro che se questo ministro avesse presieduto il G7 della cultura di Pompei, il summit sarebbe diventato una cosmicomica.

Nell’affaire Sangiuliano non c’è dunque solo l’ennesimo caso di una squadra inadeguata. C’è la prova provata che la regista non funziona: ha scelto male i giocatori e ora non sa farli rigare dritti. La premier continua a riunire i suoi a porte chiuse e a fare strigliate del tipo: non posso portare la croce solo io, datevi una regolata, non ci posso mettere sempre la faccia io. L’opposizione, politici e commentatori, per irredimibile subalternità culturale, le ha costruito addosso l’immagine di donna forte e autorevole. Dunque lei può contare sugli avversari. Il guaio è che sono i suoi a rivelare che questa immagine è solo un generoso bluff.

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