L’educazione degli adulti dagli anni Settanta a oggi: ieri come oggi al centro della sfida scolastica sono le forme dell’integrazione sociale ed educativa
In anni in cui l’azione del governo di destra – e del ministro Valditara – si palesa come il tentativo di frammentare l’impianto democratico della scuola, può essere opportuno ripensare l’esperienza di diritto allo studio e di educazione degli adulti innescata tra 1973 e 1974 con l’introduzione delle 150 ore. La loro conquista rappresentò una tappa fondamentale per l’educazione alla cittadinanza prefigurata dagli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione.
Grazie agli accordi dell’aprile 1973 siglati dai metalmeccanici, a operai, braccianti e impiegati fu concesso di usufruire di un monte ore retribuito per frequentare corsi pubblici, ottenere i diplomi della scuola dell’obbligo, acquisire competenze specifiche e in generale migliorare la propria cultura. Fu un processo di apprendistato sociale e civile che va collocato al di fuori della ristretta sfera sindacale e ricondotto invece a una riflessione transnazionale sul fenomeno della “cittadinanza attiva”, nel quadro di reti intellettuali e circolazione di esperienze euro-americane che allora rifluirono anche in Italia: a partire dal New Deal statunitense fino ai modelli europei di stato sociale.
Interagiscono temi diversi quali il costituzionalismo civile, il processo di alfabetizzazione, le esperienze di didattica alternativa, le sfide dell’alfabetizzazione digitale, la riconquista di diritti perduti, le forme di integrazione sociale e culturale tramite la lifelong education. È questo del resto uno degli obiettivi individuati dall’Unione europea all’inizio del millennio per una società della conoscenza che sappia opportunamente investire sull’educazione in età adulta.
Di tutto ciò, dagli anni Settanta ai giorni nostri, si occupa il libro curato da Raffaello Ares Doro (Diritto allo studio e educazione degli adulti nell’Italia repubblicana. Nel cinquantesimo anniversario delle 150 ore, Viella, 2024), offrendo utili chiavi di lettura storico-educative a problemi sempre attuali.
Il diritto allo studio, previsto già dall’articolo 10 dello Statuto dei lavoratori (1970), fu esteso anche agli altri settori del mondo del lavoro, sia pubblici che privati, così come a categorie non “tradizionali” come le casalinghe e successivamente a settori sociali emarginati come i detenuti nelle carceri e gli immigrati.
Si ebbe allora l’incontro tra due universi della società italiana: su un versante, i metalmeccanici e il sindacato unitario dei consigli, sull’altro, il mondo dell’istruzione, che, beneficiando della riforma della scuola media unica promossa nel 1962, si interrogava su come rendere la scuola meno classista e più inclusiva (si pensi alla Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani).
Le 150 ore si inserivano così all’interno di una richiesta di egualitarismo che veniva dal mondo del lavoro, offrendo la possibilità di studiare e di ottenere il titolo obbligatorio come momento di acquisizione collettiva e non individuale del sapere. Se all’inizio degli anni Settanta gli operai risultavano per oltre il 70 per cento privi della licenza media, fino ai primi anni Novanta i corsi delle 150 ore portarono nuovamente sui banchi della scuola oltre 1 milione di lavoratori.
L’eredità delle 150 ore va inquadrata anche attraverso l’importante collegamento che svolsero le regioni, alle quali la Costituzione affidò la formazione professionale. Negli anni diminuì il numero di operai della fabbrica e aumentarono i disoccupati, gli inoccupati, le casalinghe, gli immigrati e i giovani che dovevano recuperare l’obbligo. A partire dal 1997, quando le 150 ore vennero assorbite dall’esperienza dei Centri territoriali permanenti (Ctp), i corsi privilegiano soprattutto l’inglese, l’alfabetizzazione informatica e l’italiano per gli stranieri. La gestione delle 150 ore nel 2012 sarebbe stata quindi trasferita ai Cpia (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti), che avrebbero continuato ad assolvere prevalentemente missioni di alfabetizzazione linguistica e digitale.
Ieri come oggi al centro della sfida scolastica sono le forme dell’integrazione sociale ed educativa. Oggi i Cpia sono parte di strutture organizzative e istituzionali diffuse che includono scuole superiori ed ex corsi serali, orientate a stabilire uno stretto raccordo con le autonomie locali e le università, il mondo del lavoro e delle professioni.
Accesso al sapere per tutti
La sfida cui alludono i concetti di educazione degli adulti e di lifelong learning si coglie soprattutto in relazione al fenomeno dell’immigrazione straniera e quindi delle pratiche adottate nei territori per la promozione dell’inclusione sociale, dell’integrazione economica e dell’intercultura.
Queste pratiche coinvolgono perlopiù attori istituzionali, associazioni e operatori dell’informazione (come ad esempio i giornalisti) che singolarmente o in cooperazione puntano a creare contesti di apprendimento diretti ai nuovi migranti, contrastandone la marginalizzazione sociale e lo sfruttamento in ambito lavorativo.
Ancor di più, la sfida è quella di aggiornare continuamente la nostra formazione rispetto a una società dove gli algoritmi, le tecnologie digitali in continua evoluzione, i social network e l’intelligenza artificiale costringono a rinnovare le competenze anche in età adulta.
Se egualitari, nella tutela e nella valorizzazione delle diversità etno-linguistiche, dovrebbero essere l’accesso al sapere e il diritto alla formazione, il riemergente elitismo conservatore scolastico va contrastato riaffermando il principio che la cultura e le pratiche educative sono bene comune di tutti e per tutti i cittadini che si riconoscono nei valori della Repubblica.
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