- Ormai tutti si definiscono riformisti. E la parola finisce per non voler dire più nulla.
- In realtà anche se guardiamo al campo tradizionalmente liberale la confusione regna sovrana: molti appaiono lontani dalla liberal-democrazia, e diversi passano con disinvoltura dal campo liberale a quello socialista, e viceversa.
- La confusione delle parole, tra riformista e liberale, l’appropriazione indebita di storie politiche, gli approdi improbabili o misconosciuti, sono il frutto di una stessa matrice: l’opportunismo politico. Torniamo a usare questi termini in modo corretto, è la premessa per una buona politica.
Ormai tutti si definiscono riformisti. E la parola finisce per non voler dire più nulla. Di recente si parla di «unire i riformisti», si sono tenuti dibattiti e anche una “maratona riformista”, cui hanno partecipato politici dal Pd ai Radicali, da Italia viva a Carlo Calenda. Tutti di orientamento liberal-democratico. Non si capisce allora perché non parlare di «unire i liberali», che sarebbe già qualcosa, come osservava fra l’altro, con schiettezza e pragmatismo, intervenendo alla maratona, Carlo Cottarelli.
Alcuni più vicini al liberalismo sociale, come Calenda (che va riconosciuto insisteva sulla sanità pubblica già prima della pandemia), altri che restano ancorati ai postulati neo liberali, come gli esponenti di +Europa o Italia viva, altri ancora che hanno scelto di fare politica nel Pd, cioè in un partito che aderisce al socialismo europeo.
Ma tant’è. In realtà anche se guardiamo già solo al campo tradizionalmente liberale la confusione regna sovrana. A lungo quel campo in Italia è stato presidiato da Silvio Berlusconi, che era forse liberista in economia (non sempre), ma che con il liberalismo politico non c’entrava nulla, anzi ne incarnava l’antitesi per i suoi conflitti di interesse. Come i liberali oltreconfine, a cominciare dalle loro testate più autorevoli (l’Economist), non mancavano di far notare. Ma lo stesso Matteo Renzi, che oggi guida un piccolo partito personale che si definisce liberal-democratico, si pone decisamente fuori da quest’orizzonte, nel momento in cui sceglie come amico uno dei più potenti e spietati autocrati che ci siano al mondo (il principe saudita bin Salman) e ne elogia il regime.
Ci sono poi i liberali del Pd. Fra i primi a ostentare la definizione di riformista (è anche il nome di una corrente), quasi lasciando intendere che gli altri compagni di partito lo siano meno: quando gli altri sono semplicemente, al più, social-democratici (e cosa c’è di più riformista della social-democrazia, da che mondo è mondo?) e quando la social-democrazia è il posto che occupa il Pd in Europa da quando è entrato nel Pse. Peraltro, è stato Renzi a portare con decisione il Pd nel socialismo europeo, ponendo fine ad anni di dibattiti inconcludenti (era socialista, ora è liberale: senza mai spiegarci il motivo).
Ma sono contraddizioni che insidiano pure i Cinque stelle. Luigi Di Maio annuncia una svolta liberale, indicando il leader in Giuseppe Conte. E così riorganizzato il Movimento si propone per prima cosa di entrare, pure lui, nel gruppo del Pse. Uno non ci capisce più nulla. Anche perché, a conti fatti, negli ultimi venti anni le maggiori riforme liberali in questo paese le ha fatte Pier Luigi Bersani (le famose “lenzuolate”). Per non parlare della «rivoluzione liberale» di Massimo D’Alema, che però in quel caso non portò a nulla di fatto.
Uscire dalla confusione
Ma a pensarci bene una spiegazione c’è. La confusione delle parole, tra riformista e liberale, l’appropriazione indebita di storie politiche, gli approdi improbabili o misconosciuti, sono il frutto di una stessa matrice: l’opportunismo politico. Che è innanzitutto una forma di populismo, sia ben chiaro (ai liberali, e ai riformisti). E che inizia, non a caso, con Forza Italia di Berlusconi. E di cui anche Renzi è stato campione. E poi Di Maio. Tutti si sono approcciati alla politica allo stesso modo. Fra l’altro, non dimentichiamolo, nel 1994 Berlusconi voleva Antonio Di Pietro ministro dell’Interno (così come, venti anni dopo, Renzi avrebbe voluto Nicola Gratteri ministro della Giustizia).
Vogliamo tornare alla serietà? Il paese se ne gioverebbe molto, è la premessa per una politica non demagogica che possa sperare di farci uscire dal declino, con scelte che dovranno pur scontentare qualcuno. Comincino allora coloro che si propongono come classe dirigente. Si chiamino liberali i liberali, socialisti i socialisti. Volendo c’è la categoria di liberal-socialista, che pure è una storia di un certo rispetto (vi aderì, ma quand’era giovane, anche Mario Draghi): ma forse bisognerebbe conoscerla un po’ prima di buttarcisi a capofitto, sennò chissà che ne esce.
Quanto alla parola riformista, vista da sinistra la storia è semplice. Sono riformisti coloro che vogliono estendere i diritti (oggi non solo civili e sociali, ma anche ambientali). Conservatori quelli che li vogliono tenere così come sono. Reazionari coloro che li vogliono ridurre. Ognuno faccia i conti con sé stesso e si dia la definizione più coerente (e sì, esistono anche i liberali reazionari).
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