Da quest’anno scolastico entreranno in vigore le nuove direttive per l’insegnamento dell’educazione civica emanate dal ministero dell’Istruzione e del Merito, e un punto risalta particolarmente all’occhio: l’esaltazione della Patria e «la consapevolezza di appartenere a una comunità nazionale». Viene naturale chiedersi a che comunità nazionale faccia riferimento il ministero dato che storicamente l’Italia non ha mai vantato di una “comunità italiana unita” ma bensì di una moltitudine di identità regionali con tradizioni, dialetti, mentalità, usi e costumi differenti.

In questo contesto storico-culturale si riapre anche il dibattito sul referendum abrogativo della legge 91/1992 che regola l’ottenimento della cittadinanza italiana e del conseguente accesso a questa fantomatica “comunità italiana” di persone con background migratorio. Questo governo ha fatto della difesa dell’identità nazionale il fondamento del proprio indirizzo politico, senza però mai definire esattamente in cosa consiste questa italianità fatta di valori e tradizioni ormai messi in pericolo dalla globalizzazione e dalle migrazioni.

Ci sono riferimenti generici alle radici cattoliche e alla storia dell’Impero Romano o del Risorgimento, ma in sostanza non è chiaro chi sia effettivamente un italiano e chi no, quale sia il confine esatto tra autoctono e straniero.

Contaminazioni

L’identità italiana si è formata nel corso dei secoli attraversando innumerevoli contaminazioni provenienti dal Mediterraneo e dall’Europa continentale. Se volessimo fare un ulteriore passo indietro, persino l’Impero Romano, la cui storia e simbologia è tanto amata dalla destra conservatrice di questo paese, concesse la cittadinanza a tutte le persone presenti sul proprio territorio – che durante la sua massima estensione arrivò fino all’attuale Iraq – come mossa strategica per rafforzare il legame delle province con Roma tramite l’emanazione della Constitutio Antoniniana dell’imperatore Caracalla. Questa cittadinanza romana era concessa senza vincoli di etnia, lingua e religione ma suggellava un patto sociale tra l’istituzione e i popoli che vivevano dentro i confini imperiali.

Nello scenario che si presenta davanti a questi elementi, la riforma della cittadinanza assume un’importanza fondamentale: una politica di inclusione e di integrazione degli italiani senza cittadinanza potrebbe porre le basi per la costruzione di un senso di appartenenza condiviso, oltre che una maggiore partecipazione alla vita civile e democratica del paese tramite l’esercizio dei diritti politici.

Il processo di costruzione dell’identità nazionale è per sua natura un continuo divenire, fluido e sempre in anticipo rispetto ai cambiamenti legislativi. Così come l’imperatore Caracalla volle usare la cittadinanza come strumento di unione e consolidamento dell’Impero, il governo potrebbe in virtù delle loro presunte radici romane poter concedere la cittadinanza alle persone nate o cresciute all’interno dei confini nazionali.

La concessione della cittadinanza non è semplicemente un favore “agli immigrati” ma è uno strumento di ricomposizione strutturale della società italiana. Essa riallinea “l’italianità” con la reale composizione multietnica presente in questo paese e di conseguenza potrebbe innescare un processo di riduzione delle divisioni sociali e culturali.

La frammentazione dell’identità italiana potrebbe solo trovare giovamento in questa riforma tramite una formalizzazione della cittadinanza alle seconde generazioni, simbolo ormai di un’Italia che vede nell’esaltazione della diversità una ricchezza. L’inclusione dei nuovi italiani – spesso figli di culture ibride – potrebbe favorire la costruzione di un’identità nazionale capace di vedere e accettare la diversità senza rinunciare alla coesione sociale. Ora spetta all’Italia decidere se tramite questa iniziativa popolare sarà possibile fare un ulteriore passo verso un paese più unito e la cui frammentazione storica e contemporanea possa diventare una ricchezza e non un ostacolo. O forse continuerà a insegnare un concetto fumoso di Patria.

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