Un ministro che chiede più tagli del previsto per un settore di sua competenza, tradisce nella migliore delle ipotesi una totale distanza dalla materia, un disinteresse; nella peggiore un’assenza di cura, un disprezzo. La lettera di Sangiuliano è un atto di ammissione di estraneità a un mondo di cui il presidente della Repubblica gli ha chiesto di occuparsi, all’atto del giuramento
L’errore sarebbe restare dentro il perimetro dei sorrisini e dei pezzi di colore. L’errore sarebbe giudicare questa storia come l’altra del treno di Pompei, inaugurato solo per una corsa al mese, oppure come la serata al premio Strega, quando il ministro della cultura si mise nella condizione d’esser preso in giro da Geppi Cucciari perché i libri da votare li aveva letti, non li aveva letti, forse poco, tanto, non abbastanza, non si sa.
Nella storia della lettera con cui Gennaro Sangiuliano chiede a Giancarlo Giorgetti più tagli del previsto per il cinema purtroppo non c’è niente da ridere. È il segno definitivo di una certa maniera di intendere la missione di governo, non un servizio al paese ma l’occupazione di uno spazio, un regolamento di conti, già intravisto intorno al cda del centro sperimentale di cinematografia. Un ministro che chiede più tagli del previsto per un settore di sua competenza, tradisce nella migliore delle ipotesi una totale distanza dalla materia, un disinteresse; nella peggiore un’assenza di cura, un disprezzo. La lettera di Sangiuliano è un atto di ammissione di estraneità a un mondo di cui il presidente della Repubblica gli ha chiesto di occuparsi, all’atto del suo giuramento. È dal presidente della Repubblica che ogni anno vengono ricevuti i candidati al David di Donatello, in quelle stanze del Quirinale dove a maggio scorso Sergio Mattarella ha detto che «il cinema fa parte della nostra identità».
La delega di governo consente al ministro Sangiuliano di amministrare un budget, non di disporne come in un duello western, di certo non gli consente di disporre delle vite altrui: fonici, elettricisti, parrucchieri, costumiste, segretarie di edizione. Il guaio dei ministri è che hanno fretta, devono sempre scappare, al cinema si alzano prima che finiscano i titoli di coda, prima di potersi accorgere di quante professionalità ci sono dietro un film. Il cinema e il teatro sono stati tra i settori più penalizzati dal lockdown. Ci sono sale che non hanno più riaperto, attori che hanno tenuto i loro spettacoli nei cortili dei palazzi, altri che hanno dovuto cambiare mestiere.
Dal covid il cinema italiano è comunque uscito pieno di grandi idee, riconosciute come tali dal mercato internazionale. È uno dei pochi settori a piena occupazione, oggi si fa fatica a trovare un macchinista libero. Delle due l’una: o tutto questo Sangiuliano non lo sa, oppure francamente se ne infischia. In un caso e nell’altro, si tratta di un ministro inadeguato al ruolo. Abbiamo avuto sottosegretari di governo (il giovane Andreotti) che censuravano il neorealismo perché «i panni sporchi si lavano in famiglia». Abbiamo avuto economisti (Giulio Tremonti) convinti che «con la cultura non si mangia». Mai c’era stato un ministro della cultura insensibile al cinema. È come avere un ministro degli Esteri che non ha fatto il passaporto.
I vecchi del mestiere, i maestri del giornalismo, dicevano che non è elegante chiedere le dimissioni di un ministro. Ma un ministro che si manifesta così estraneo, così del tutto inadeguato, se ne accorge da solo, lo capisce da sé quand’è il momento di andarsene.
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