- Prosegue inarrestabile il deprezzamento della lira turca, agevolato dalla convinzione del presidente Erdogan che l’inflazione, giunta al tasso annuo ufficiale dell’80 per cento, si combatta riducendo i tassi d’interesse;
- Il paese ha fame di dollari, accresciuta dallo shock inflazionistico globale, ma le riserve valutarie proprie sono state prosciugate dalla futile difesa del cambio della lira;
- Il ricorso a prestiti in dollari da parte di altri paesi mediante linee di swap e il gioco di sponda con l’ingombrante vicino russo sono il rischioso puntello della spregiudicata proiezione di potenza regionale che Erdogan persegue attivamente, dal Medio Oriente all’Africa;
Prosegue inarrestabile il deprezzamento della lira turca, giunto oltre il 100 per cento annuo, e non potrebbe essere altrimenti, visto che la banca centrale esegue fedelmente la volontà del presidente Recep Tayyip Erdogan, convinto che l’inflazione si combatta abbassando i tassi d’interesse.
Lo shock inflazionistico che sta colpendo tutto il mondo e con particolare violenza i paesi emergenti, data la forza del dollaro e il conseguente deflusso di valuta per comprare energia, alimentari e materie prime, viene gestito dalle autorità turche con la messa in campo di molteplici strumenti, non ultima la carta delle relazioni geopolitiche e i rapporti con la Russia.
Ingegneria finanziaria per disperati
Nell’ambito degli strumenti classificabili come ingegneria finanziaria per disperati, a fine 2021 sono stati introdotti i depositi “protetti” in lire, dove lo stato mette la differenza tra il tasso offerto dalle banche locali e il deprezzamento della lira contro dollaro. Adesione dei risparmiatori in complesso non massiva ma onere per le casse pubbliche molto elevato, dato il deprezzamento della lira nel frattempo intervenuto; oltre il 25 per cento da inizio anno.
In seguito, sono stati offerti finanziamenti in lire turche a tasso zero ai non residenti che compreranno obbligazioni locali mantenendole per almeno due anni. In cambio ottenendo un rendimento garantito in dollari del 4 per cento che è esiguo rispetto al rischio di credito della Turchia.
La stretta si è poi spostata sui richiedenti valuta: alle banche è stato chiesto di sondare le motivazioni dei clienti ed esercitare varie forme di dissuasione all’acquisto. Va da sé che, se la valuta serve per pagare le importazioni che entrano nelle trasformazioni produttive destinate a successiva esportazione, comprimere tale richiesta rischia di bloccare il paese.
Non volendo o potendo introdurre controlli valutari espliciti, le autorità turche hanno progressivamente innalzato all’attuale 40 per cento la quota di valuta che gli esportatori devono obbligatoriamente convertire in lire, cioè cedere a stretto giro alla banca centrale.
Chi paga il conto
La popolazione è alle prese con una inflazione al consumo che ufficialmente è intorno all’80 per cento, le imprese con prezzi alla produzione che nell’ultimo anno sono cresciuti, sempre secondo l’istituto statistico nazionale, del 144 per cento.
In situazioni del genere si tende ad abbandonare la valuta locale e l’economia viene sottoposta a un processo di dollarizzazione o eurizzazione, anche in presenza di contrasto da parte delle autorità, con la comparsa di cambiavalute informali. Prende vigore anche il baratto. Per alleviare le tensioni, Erdogan aumenta il salario minimo, che in Turchia riguarda circa un terzo degli occupati nel settore formale dell’economia, e così facendo alimenta la spirale prezzi-salari.
La banca centrale turca è costretta a reperire dollari, senza i quali l’economia del paese subirebbe un tracollo. E qui entrano in gioco le linee di swap, cioè i prestiti concessi da altre banche centrali e commerciali estere.
Erdogan si è avvicinato alle petromonarchie: di recente il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, ha compiuto una visita di poche ore in Turchia, immortalata da photo opportunity in cui Erdogan non appariva particolarmente sorridente, a differenza del suo raggiante e trionfante ospite. Arrivano altri dollari, rigorosamente a debito.
La trappola
La Turchia, che ha un deficit delle partite correnti che nel breve-medio termine può essere curato solo frenando la domanda interna, ha quindi una robusta fame di dollari, per tenere in piedi il commercio estero e ridurre la pressione ribassista sulla lira: la banca centrale li vende tanto attivamente quanto futilmente. Si stima che da inizio anno tale rogo abbia immolato oltre 65 miliardi di dollari. Il punto è che quei dollari neppure sono di proprietà turca ma sono, appunto, prestiti.
Entro i prossimi dodici mesi, i debitori turchi dovranno inoltre rimborsare o rinnovare prestiti in valuta per il controvalore di 182 miliardi di dollari.
Con l’invasione russa dell’Ucraina, Erdogan sta giocandosi la carta del mediatore regionale, puntando al do ut des di Putin in Siria, dove l’autocrate turco chiede mano libera contro i curdi.
Il recente incontro tra Putin ed Erdogan a Sochi ha dato il via libera a un rafforzamento della cooperazione economica tra i due paesi. I cittadini russi potranno usare in Turchia le carte di credito nazionali del circuito MIR, mentre è stata firmata un’intesa per regolare l’interscambio commerciale nell’improbabile cambio bilaterale lira-rublo, che non è esattamente un modello di liquidità e che potrebbe quindi richiedere triangolazioni e pesanti oneri di intermediazione.
Nel frattempo la russa Rosatom, impegnata in Turchia nella costruzione di una centrale nucleare da quattro reattori e 4.800 megawatt del valore di 20 miliardi di dollari, ha provveduto a bonificare dollari alla propria controllata locale, migliorando la posizione valutaria turca. Ma restano debiti a carico di Ankara e andranno pagati, in un modo o nell’altro. Lo scorso anno Mosca ha coperto un quarto del fabbisogno di greggio e il 45 per cento degli acquisti di gas naturale turchi.
Cavallo di Mosca
I paesi occidentali temono che la Turchia, paese Nato, possa diventare il cavallo di Troia di Mosca per eludere le sanzioni; gli americani hanno già mandato un avvertimento a Erdogan ventilando sanzioni secondarie ma la Ue appare restia a incamminarsi su questa strada, visto il ruolo che la Turchia svolge col "trattenimento" dei profughi siriani dietro pagamento europeo, dal 2016. Verosimile inoltre che le numerose multinazionali occidentali che operano nel paese eurasiatico opporrebbero resistenza a sanzioni.
Erdogan sta muovendosi su un sentiero molto stretto: la proiezione di potenza mediorientale, mediterranea e africana poggia su basi economiche vieppiù fragili.
Se la Turchia dovesse essere destabilizzata economicamente, sia dall’iperinflazione che da sanzioni occidentali, si aprirebbe l’ennesimo vaso di Pandora alle porte d’Europa.
Per ora, il Sultano procede contando sull’attesa decelerazione dei prezzi che a fine anno, grazie all’effetto ottico del confronto con i dodici mesi precedenti, dovrebbe piegare verso il 60 per cento, almeno nelle previsioni della banca centrale. Basterà anche ai suoi connazionali?
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