Il primo agosto del 2018 il grande linguista Luca Serianni, scomparso il 21 luglio 2022 dopo un incidente stradale, aveva tenuto una lezione dal titolo La lingua italiana come cittadinanza, ai giardini sopra la stazione della metro Jonio a Roma, nell’ambito del progetto Grande come una città promosso da Christian Raimo. Ne pubblichiamo una sintesi. 


Non di rado la Costituzione viene vista da alcuni come un fastidioso vincolo di cui le persone potrebbero fare a meno e si troverebbero meglio. Questo è un errore notevole perché è proprio l’impalcatura giuridica – e la Costituzione è proprio il massimo strumento del diritto – che permette un vivere ordinato. E l’idea di considerare gli atti della legge in generale come fastidiosi adempimenti burocratici è un’idea deleteria. Quindi partire dalla costituzione può essere giusto. Ma partire da quali aspetti? Forse l’articolo fondamentale è l’articolo 3, l’articolo che prevede l’uguaglianza di tutti i cittadini.

Qualcuno potrebbe dire: bel concetto, ma come si fa a tradurlo in pratica? Un elemento significativo e un elemento di fascino della costituzione è che è carica di auspici segnati dalla Storia che ha portato alla costituzione.  È chiaramente un auspicio, uno sforzo, una tendenza. E del resto non è che un auspicio anche ciò che si legge nel primo articolo,«La Repubblica è fondata sul lavoro».

L’articolo 27, che parla della funzione della pena e fa una scelta di campo molto precisa, non a caso fu oggetto di discussione da parte dei costituenti. La pena svolge anche una funzione retributiva o in generale preventiva. Si interviene con una sanzione e anche con la privazione della libertà personale nei confronti di qualcuno che abbia commesso un delitto per ammonire gli altri a non imitarlo e per risarcire simbolicamente la società di questa violazione. Però accanto a questi elementi che sono elementi costitutivi della sanzione penale, che vengono dati come impliciti, c’è un elemento che viene sottolineato: la funzione rieducativa della pena.

Non si deve perdere la fiducia o la speranza che il reo possa essere riammesso a godere a pieno titolo del godimento dei diritti civili che lui stesso per il suo comportamento si è precluso. E naturalmente da questo dato deriva come necessaria conseguenza l’abolizione della pena di morte. In Italia quando si parla di abolizione della pena di morte viene in mente il nome di Cesare Beccaria. Beccaria sostiene due principi molto importanti: il primo è che la pena di morte è per definizione irriformabile, e quindi non garantisce la possibilità umana dell’errore giudiziario. La verità processuale vuol dire che c’è la possibilità di ritornare sopra la precedente sentenza; addirittura ci sono tre gradi di giudizio.

E Beccaria disse anche un’altra cosa molto importante, che non bisognava ricorrere alla tortura. Perché la tortura non è un mezzo di prova e perché il criminale incallito con particolare resistenza anche sotto tortura non ammetterà mai di aver fatto quello che gli viene imputato, mentre la persona più debole potrà non solo ammettere le sue colpe, ma addirittura cedere alle imputazioni che gli vengono rimproverate senza avere la possibilità di rifiutare queste imputazioni.

Sono due obiezioni di tipo giuridico, oltre che di tipo morale, che rendono particolarmente significativo questo lontano precedente, perché quando Beccaria scriveva queste cose, nel 1764, la pena di morte era normale in tutta Europa.

Ancora un’ultima riflessione vorrei fare sull’articolo della costituzione in cui si dice: l’Italia ripudia la guerra. È un altro articolo che esprime più un auspicio che una condizione strettamente vincolante; ci sono state polemiche sulla partecipazione di soldati italiani a vicende più o meni recenti, per esempio dei Balcani: guerra o non guerra? È un ripudio o non è un ripudio?

Inviterei a vedere questo principio nel senso di un auspicio, come una scelta di fondo: si considera la guerra come un tipico disvalore, per usare la parola tecnica che nel linguaggio del diritto indica qualcosa di negativo da cui la società deve difendersi.

Le lingue cambiano

La seconda riflessione che vorrei fare riguarda l’ambito specifico dei miei studi, la lingua, e si riferisce alla necessità linguistica adeguata per l’insieme dei cittadini. La padronanza linguistica implica andare oltre le parole che costituiscono il patrimonio spontaneo di qualunque parlante, quelle che un grande linguista scomparso, Tullio De Mauro, aveva calcolato secondo un complesso sistema di elaborazione in parole del lessico fondamentale – per esempio “ma”, “andare”, “il” o anche “gatto”, “cane” -, parole di alto uso e parole di alta disponibilità.

Le parole di alto uso sono parole di alta frequenza, appena un po’ meno, e le parole di alta disponibilità sono le parole che ciascuno di noi per molti giorni potrebbe non pronunciare mai, non avere modo di evocare, ma che rappresentano però parole che appartengono al nostro orizzonte quotidiano: “aceto” o “alluce”…

C’è questo zoccolo duro di parole che costituiscono l’elemento portante della lingua di ciascuno di noi. Però ci sono parole che vanno oltre, e di cui la scuola in particolare deve farsi carico. Quali parole?

 Prima di tutto le parole che indicano la continuità con la nostra grande tradizione scritta. L’esempio che vorrei fare è attinto da Dante, che è un poeta centrale della nostra esperienza linguistica, non solo perché la sua immagine figura sulla moneta da due euro.

In Dante ci sono molte parole che usiamo ma con un significato diverso. Prendere coscienza di questa evoluzione è un buon modo per storicizzare la trasformazione delle lingue che è un dato assolutamente normale. Però è importante, nel caso della tradizione letteraria, mantenere questo senso di continuità.

Faccio due esempi presi dal ventiseiesimo canto del purgatorio; è il canto in cui Dante incontra tra gli spiriti purganti i lussuriosi. Tra i lussuriosi ci sono quelli contro natura e quelli secondo natura; invece i sodomiti erano stati peggio nell’inferno, distinti dai lussuriosi. Ma non mi interessava qui quest’aspetto, quanto la parola “stupido”. Oggi forse è al gradino più basso dei possibili insulti. Stupido è qualcosa da bambino, qualcosa che ci fa quasi tenerezza. Ma in Dante stupido non vuol dire poco intelligente.

Dante dice per descrivere lo stupore che questi purganti provano nel vedere un vivo come Dante, con tanto di ombra che si aggira nell’oltremondo: «Non altrimenti stupido si turba / lo montanaro, e rimirando ammira / quando rozzo il salvatico si inurba». Allo stesso modo il montanaro che arriva nella città, si trova in un ambiente assolutamente ignoto, e si guarda intorno stupefatto, esprimendo questa sua meraviglia.

L’altro esempio tratto dallo stesso canto è quello di “scemo”. Scemo è oggi sullo stesso piano di stupido. Invece in Dante vuol dire ancora “mancante”, “privo”. Esiste oggi un verbo, non comune ma ancora in uso, che è scemare, diminuire, ridurre. Dice infatti Guido Guinizzelli nel ventiseiesimo canto del Purgatorio: «Farotti ben di me volere scemo. Cioè: toglierò il tuo desiderio di sapere chi io sia dicendoti il mio nome. Farotti ben di me volere scemo: / son Guido Guinizzelli; e già mi purgo / per ben dolermi prima ch’a lo stremo». Scemo e stupido, parole comuni, che però in Dante hanno significato diverso. Questa è una buona occasione per riflettere anche sulla lingua, su come cambia nel corso del tempo.

La necessità linguistica 

LaPresse

Tenere conto della continuità con la lingua del passato ma tenere conto anche della consapevolezza di capire la lingua di oggi a livello appena colto. Quale è il livello appena colto a cui faccio riferimento? Quello dei giornali. Per darvi l’idea di quello che dico, ho ritagliato un articolo del Corriere della sera di oggi ed è un articolo che tutti, credo, anche un ragazzo delle medie, non dico delle elementari, potrebbe leggere. È un articolo sulla Tav: riporta le dichiarazioni del ministro Toninelli, con il titolo «“Valuteremo se fermare la Tav”. Timori senza fondamento». Ora mi soffermo su tre, quattro parole, parole molto comuni. Ma mi chiedo – avendo insegnato per tanto tempo, e avendo anche avuto anche rapporti molto frequenti con il mondo della scuola, con il mondo degli insegnanti – quanti ragazzini saprebbero capire le parole su cui mi soffermo.

«Basta con le grandi opere infrastrutturali, mastodontiche, dispendiose». Infrastruttura è una parola importante in economia. Ed è una parola che non si ricava da gran parte delle letture che si fanno a scuola, perché non capita che gli autori letti a scuola parlino di infrastruttura o infrastrutturale, che sono parole la cui attestazioni risale a non più di cinquanta o sessant’anni fa. Però la parola infrastruttura è importante per indicare tutta una serie di interventi che si fanno sul piano dei trasporti, dell’edilizia, delle fognature. Non conoscerla vuol dire partire male nella lettura di un articolo come questo abbastanza banale.

Andando oltre troviamo il verbo recedere: «Gli eventuali costi di tutte le alternative compresa quella di recedere dalla prosecuzione dell’opera». Recedere è un bel verbo, che ci permette, ove avessimo mai una minima, davvero minima competenza in latino, quella che si può avere anche solo nel bienno del linguistico di scienze sociali, o a maggior ragione nel liceo scientifico o nel liceo classico, di fare un’osservazione che ci permette di collegare recedere a una famiglia lessicale che è ben viva anche in italiano. L’unica informazione in più che darei è che recedere, verbo già latino formato da cedo, indicava un movimento.

 Il significato fondamentale è quello di andare. Poi, forse anche per un meccanismo eufemistico, già in latino cedere è passato dal significato di andare a quello di ritirarsi; le sconfitte, i ripiegamenti di un esercito in conflitto sono in generale sempre velati perché considerati una sconfitta che è difficile ammettere.

Altri due esempi: «tra gli annunci figura l’arrivo del nuovo codice degli appalti». Figura è un sinonimo più ricercato ma non particolarmente arduo, di quello che noi parlando abitualmente, parlando in maniche di camicia, diremmo c’è. Figura è una possibilità tipica della lingua scritta che ha un lessico più ricercato, più articolato. L’altro elemento non è lessicale ma morfologico, cioè bensì.

Leggo il brano: «Su Alitalia, per esempio, l’indicazione è che non vada semplicemente salvata, bensì rilanciata nell’ambito…». Tutti i parlanti italiani sanno o intuiscono che non si potrebbe dire qui però. Ed è interessante riflettere sulla differenza tra bensì e però. Perché bensì sostituisce, cancella la affermazione fatta in precedenza – «Non siamo nel quarto municipio, bensì nel terzo». Potrei dire anche ma naturalmente. Non potrei dire però, non avrebbe senso, ci sarebbe una violazione logica; perché però lascia sussistere, modificandolo, attenuandolo, ciò che viene detto prima.

Questa riflessione serve a prendere coscienza di un uso che già noi abbiamo. Permettetemi di fare un passo indietro, di ritornare solo per un momento alla cittadinanza e alla Costituzione. Ci sono degli articoli della Costituzione, che tutti quanti applichiamo perché abbiamo interiorizzato ma che non sapremmo riconoscere nella loro formulazione. Facciamo un esempio: l’articolo 3, quello da cui sono partito, Tutti sono uguali.

Non c’è alcun dubbio che è una realtà che tutti noi diamo per assolutamente scontata nella concretezza dei rapporti anche famigliari, insomma non c’è nessun padre che penserebbe di lasciare i suoi averi in una misura diversa ai figli perché uno è maschio e l’altro è femmina; è impensabile.

Però se voi uscite di qui e andate a chiedere a Viale Jonio o a via Scarpànto e chiedete alla prima persona che incontrate che cosa dice l’articolo 3, vedrete che i casi sono tre: c’è una minoranza che risponde, una maggioranza che vi guarda come mezzi pazzi e pensa che vogliate chiedergli soldi, e un altro gruppo che non lo sa.

L’articolo non si sa, ma il concetto è presente. E così anche il rapporto tra ma, però e bensì. Ed è una occasione di riflessione perché nella scuola c’è anche una giusta competenza da sviluppare, una competenza come si dice metalinguistica.

La cittadinanza della lingua

Terzo punto sul quale vorrei fare qualche considerazione è la padronanza della lingua da assicurare ai cittadini stranieri. Questa è una condizione fondamentale per quanto riguarda l’integrazione; ci sono altre condizioni che rappresenterebbero se fossero richieste una violenza. Non potremmo chiedere a nessuno di abdicare alla propria religione. Ma neanche di rinunciare alla sua cucina regionale, alla sua cucina etnica.

Tra i vari problemi di convivenza, che sono problemi tra gruppi etnici diversi, c’è il fatto che in alcune cucine si sentono odori che sono sgraditi alla nostra tradizione; non potremmo però dire: tu sei venuto in Italia e devi mangiare spaghetti e non i vari piatti.

Possiamo invece chiedere due cose, o aspettarci due cose: la prima è la padronanza della lingua che in genere gli stranieri sono ben disposti a imparare perché è il modo di comunicare con la realtà che li circonda.

Tuttavia, si dovrebbe fare molto di più da parte dello Stato, perché è nell’interesse dello Stato garantire questo livello di integrazione. E naturalmente, l’altro livello che noi possiamo aspettarci – e lo dico proprio richiamandomi al concetto da cui sono partito, la Costituzione – è il rispetto dei principi generali.

Non possiamo abdicare al principio che per noi è fondante dell’uguaglianza, non possiamo ammettere che ci possano essere differenze tra uomo e donna. Colui che viene nel nostro paese, nel nostro sistema, deve rispecchiarsi in questi valori.

Quindi non si tratta di chiedere conoscenze storiche come in altri paesi è avvenuto; mi risulta anche in Svizzera, per esempio; immaginate se facessimo domande di storia patria quanti sono i cittadini italianissimi che non saprebbero rispondere. Chiediamo invece la competenza linguistica, che procederà attraverso richieste diverse rispetto a quelle a cui alludevo prima. Sono importanti, come sanno coloro che insegnano l’italiano elementare, le formule che si usano nella lingua di tutti i giorni, e che rappresentano delle formule con una forte caratura idiomatica.

La lingua madre – lo ha osservato una scienziata milanese, l’immunologa Maria Luisa Villa – ha un potere straordinario: «La lingua materna ha una superiore capacità di dare corpo ai pensieri e di trasformarle in parole chiare, perché nel corso dell’acquisizione infantile essa plasma in modo le strutture della mia mente». Questa osservazione di Maria Luisa Villa è stata fatta in un suo brillante opuscolo sul principio che l’inglese non basta. Come sapete, nella scienza e non solo nella scienza l’inglese domina senza rivale.
Però, sottolineava la Villa, questo non può essere un buon motivo per abbandonare la lingua materna proprio per la sua capacità di modellare il pensiero, come avviene nell’acquisizione che in modo straordinario – se lo guardiamo dall’esterno – qualunque bambino in qualunque parte del mondo riesce a compiere impadronendosi di una lingua complessa.

E l’osservazione ingenua che qualunque adulto è tentato di fare è di meravigliarsi che bambini cinesi o svedesi possano padroneggiare delle lingue così difficili; naturalmente nessun adulto la fa un’osservazione di questo tipo. Vero è però che proprio in base alla distanza tipologica tra italiano e cinese, e appena un po’ meno tra italiano e svedese, la difficoltà di apprendere questa lingua da adulto è molto maggiore.

Ma questo solo per ricordare che il compito di diffondere l’italiano agli stranieri è compito nostro in generale come società, ed è veramente questo sì un modo per difendere o per proteggere l’italiano, quello di moltiplicarne il più possibile l’uso nei confronti di persone che per contingenze di vita si trovano anche particolarmente esposte a questa esigenza e sono tendenzialmente pronte ad accettarlo.

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