In principio ci fu l’idea di aggregare il meglio delle culture politiche riformiste del paese: quella, certamente non socialdemocratica, degli ex comunisti, quella dei cattolico-democratici, degli ambientalisti, di qualche liberale, con la non troppo curiosa, ma grave, esclusione della cultura socialista. Poi, in realtà, di queste culture già allora evanescenti si vide molto poco il tasso di riformismo, cosicché il Partito democratico affidò la sua identità a una aspirazione: la vocazione maggioritaria, e a un metodo: le primarie, nella affermazione orgogliosa che la leadership doveva essere “contendibile”.

Oggi, dopo Veltroni, Bersani, Renzi-Renzi e Zingaretti, quattro segretari che hanno vinto le primarie e con reggenti Franceschini, Epifani, Martina loro subentrati solo temporaneamente, possiamo dire che la leadership è stata fin troppo contendibile. Dunque, gli aspiranti stregoni messisi all’opera per costruire un partito che non è mai esistito nei sistemi politici europei hanno semplicemente dimostrato la loro inadeguatezza. Inoltre, la verità è che il Pd non aveva messo insieme culture politiche trionfanti, ma due ceti politici declinanti e in buona sostanza dotati del potere di mantenersi a galla senza sapere né volere rischiare elaborando idee e proposte.

Nessuna proposta nuova

Di nessuno dei segretari è possibile effettuare un collegamento con proposte nuove dirompenti. Non vale neppure la pena cercare di ricostruirle per “dare un senso a questa storia”, l’espressione usata da Bersani nel corso della sua vittoriosa, ma tutto meno che innovativa, cavalcata nelle primarie. Bisognava, bisognerebbe, bisognerà delineare una storia nuova. Non ce ne sono neppure i presupposti minimi. Si chiamino pure pudicamente sensibilità o anime, le aggregazioni personalistiche ovvero intorno a un leader, rigorosamente uomo, che si formano e si riproducono nel partito, non sono neanche vere correnti. Troppo spesso le donne si agganciano alla leadership di un uomo e lì attendono e spesso ottengono cariche e promozioni. Le polemiche da loro montate perché fra i tre ministri spettanti al Pd non c’era neppure una donna sono apparse del tutto pretestuose e comunque prive di contenuti effettivamente politici.

Se un partito non sa, non riesce e non si cura di produrre idee politiche, di confrontarle, di aggiornarle, inevitabilmente il discorso si sposta sulle cariche, che, per qualcuno/a possono anche essere, con cedimento populista, chiamate poltrone. Senza fare politica sul territorio, questa volta il politichese appare appropriato, le poltrone inevitabilmente diminuiscono di quantità e di numero. Dove ci sono poche idee e nessun dibattito, gli “idealisti” se ne vanno e rimangono gli arrivisti/carrieristi. Costoro non daranno nessun contributo alla crescita culturale del partito. I loro obiettivi sono altri e se dimostrano fedeltà al leader di turno riusciranno a passare da una carica a un’altra, persino a prescindere dagli impegni presi con il loro elettorato. Nonostante le loro grandi maggioranze, i vari segretari del Pd non hanno mai davvero, dopo una luna di miele, avuto il pieno controllo e sostegno del partito.

Forse il segretario più forte da questo punto di vista è stato Matteo Renzi, ma il suo stile di leadership ha provocato molte tensioni e conflitti sicuramente deleteri anche perché orientati più al rafforzamento quasi plebiscitario della sua leadership piuttosto che al perseguimento coerente di una politica riformista mai compiutamente delineata (e probabilmente non nelle sue corde).

Il tentativo di Renzi

Renzi non si lasciò sfuggire l’opportunità di designare la maggioranza dei componenti dei due gruppi parlamentari. Ne è conseguito che, vincendo le primarie, il segretario Zingaretti ha ottenuto la maggioranza negli organismi dirigenti del partito: Assemblea nazionale e Direzione. Però, non soltanto i due gruppi parlamentari di Camera e Senato sono in maggioranza stati nominati da Renzi, ma i due capigruppo hanno un recentissimo passato di strettissimi collaboratori di Renzi. Non desidero formulare nessuna ipotesi, ma penso che sia corretto concludere temporaneamente che, da un lato, è in corso un tentativo a opera di Italia viva e del suo capo di scompaginare sia il Partito democratico sia il Movimento 5 stelle, dall’altro, con le sue dimissioni di Zingaretti potrebbe avere deciso di mettere fine all’esperienza del Pd per procedere alla costruzione di un partito diverso, migliore. È un’operazione difficile, ma possibile. Se qualcuno ha davvero pensato che con il governo Draghi la politica si sarebbe ristrutturata, la decisione di Zingaretti potrebbe essere il primo importante passo in quella direzione.

 

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