La fine annunciata della guerra d'Ucraina diventa il motivo di una malcelata soddisfazione per i molti che avevano previsto la vittoria dello strapotere di Mosca, ormai avviata ad annettersi almeno il venti per cento del territorio di Kiev oltre alla Crimea
Impera un elogio della forza che è l'emblema di come il mondo abbia accettato supinamente la legge della sopraffazione. Blaise Pascal lo diceva già ai tempi suoi, nel secolo Seicento: «Non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte, abbiamo fatto che ciò che è forte fosse giusto». Quattro secoli dopo siamo costretti a constatare che nulla è cambiato, nonostante avessimo creduto che il cammino della civiltà ci avesse dotato di altri parametri di giudizio meno muscolari.
Così la fine annunciata della guerra d'Ucraina diventa il motivo di una malcelata soddisfazione per i molti che avevano previsto la vittoria dello strapotere di Mosca, ormai avviata ad annettersi almeno il venti per cento del territorio di Kiev oltre alla Crimea.
«Io l'avevo detto», è la tronfia e gongolante conclusione. Facile pronostico, viste le limitazioni degli aiuti a Zelensky, decisi per non urtare, non troppo, i satrapi del Cremlino. Si può discutere se la Nato avesse o meno «abbaiato sui confini della Russia», come da definizione di papa Francesco. Ma non ci possono essere dubbi sull'aggressione vile e criminale di Vladimir Putin verso un Paese sovrano, un cattivo esempio foriero peraltro di nefaste conseguenze. Ma il realismo cinico, profuso a piene mani, non si cura delle conseguenze, accetta in modo miope lo stato di fatto, la “realtà del terreno”.
Putin, niente affatto pazzo, lo aveva previsto fin dall'inizio, sapeva di avere dalla sua l'ignavia della cosiddetta comunità internazionale e non si è sbagliato. E ora, non contento della sostanziale resa dopo le frasi di Zelensky sull'impossibilità di riprendersi le aree conquistate dal nemico, maramaldeggia in modo gradasso, bombarda Kiev con missili balistici, colpisce le ambasciate: il segno che non esiste nessun limite, nemmeno nessun salvacondotto, davanti alla protervia irrefrenata.
L'attacco alla capitale è un monito a futura memoria, segnala la volontà di non fermarsi oltre a quella di infliggere l'umiliazione estrema. In modo da sedersi al tavolo delle trattative con una metaforica pistola carica e il dito sul grilletto. Guai ai vinti!
Suonano così patetiche le condanne espresse dalle cancellerie e dall'Unione europea, le conferenze di pace invocate (anche dal ministro Antonio Tajani) fuori tempo massimo, quando tutto è stato deciso e il povero Zelensky è costretto a giocarsi la carta della disperazione invocando un impossibile aiuto dal presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump.
Quando non ci sono contrappesi alle volontà delle grandi potenze, al loro desiderio di confrontarsi tra loro senza gli orpelli del diritto internazionale, delle leggi che fino all'altro ieri ponevano un qualche freno alle loro smisurate ambizioni di non condividere nulla con le altre nazioni, anzi calpestandole se necessario.
La forza, appunto, come unico parametro, che vale in Europa come in Medioriente dove, seppur in circostanze diverse, nessuno, tantomeno la derelitta Onu, è riuscito a porre un argine alla violenta ed esagerata reazione di Israele dopo il 7 ottobre.
Questa sarà l'eredità dell'Ucraina che segnerà i rapporti del futuro prossimo mentre l'Unione europea dovrà finalmente decidere se continuare a essere vaso di coccio tra vasi di ferro bloccata com'è nel dilagante sovranismo di diverse sue componenti. Oppure proporre in modo compatto una diversa visione dei rapporti tra gli Stati, uscendo dal sonno in cui si è cullata da quando ha accettato di essere vassalla di interessi diversi dai suoi. Non c'è più tempo per tergiversare, la campana è già suonata da un pezzo.
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