- Alla fine degli anni Duemila la destra festeggia con Alemanno e Polverini la conquista di Roma e del Lazio. Fiamme tricolori, saluti romani, “presente” ai funerali dei compagni di partito vengono sfoggiati senza particolari polemiche.
- La vittoria di Giorgia Meloni di qualche giorno fa non è una festa, nel comitato elettorale poche decine di persone, nessun coro e nessun ballo, un discorso sobrio e fondato sulla responsabilità, sorrisi tirati e un po’ impauriti.
- Perché questa trasformazione radicale nei toni della destra italiana nell’arco di una sola generazione? Crisi internazionali, perdita di sovranità, necessità di fare compromessi: sono queste le ragioni che renderanno Meloni più simile a Draghi che ad Alemanno
Marzo 2008, Roma. Gianni Alemanno è appena stato eletto Sindaco della Capitale. Due settimane prima Silvio Berlusconi, a capo della coalizione di centrodestra, ha stravinto le elezioni politiche. La destra italiana è all’apice del suo successo, ha riportato una vittoria storica nel paese e a Roma. Al comitato elettorale di Alemanno ci sono migliaia di persone: bandiere, cori, applausi, si sfila fino alla presa ufficiale del Campidoglio. C’è la destra romana, con le sue sezioni, i suoi militanti, i suoi riti tolkeniani e la sua simbologia post fascista che si appresta ad entrare nelle stanze del potere.
Alemanno non farà prigionieri: niente tecnici, niente patti con l’establishment, niente compromessi centristi. La giunta e il tentacolare apparato dell’amministrazione capitolina saranno colonizzati dai vecchi militanti scelti, prima di tutto, sulla base della fedeltà politica. La destra è talmente forte che lo spettro del fascismo viene sventolato timidamente dalla sinistra, l’opposizione è blanda. Fiamme tricolori, saluti romani, “presente” ai funerali dei compagni di partito vengono sfoggiati senza particolari polemiche.
In Europa, nessuno sembra accorgersi di nulla: l’Italia è un paese ancora bipolare, la destra ha già governato diversi anni, Gianfranco Fini ha sepolto la retorica antisemita e il passato missino, non c’è ancora traccia di euroscetticismo se non in frange minoritarie di Alleanza nazionale. La crisi finanziaria è appena scoppiata in America, ma i suoi effetti si dispiegheranno nel vecchio continente solo tre anni dopo, inghiottendo le economie reali e i sistemi politici europei.
La destra festeggia senza sobrietà e senza destare scandalo internazionale. E lo stesso accadrà due anni più tardi con la vittoria alle regionali del Lazio con Renata Polverini quando nella notte il comitato elettorale si trasformerà in una vera e propria discoteca. Le crisi politiche cambiano i tempi e lo stile.
Responsabilità e sobrietà
La vittoria di Giorgia Meloni di qualche giorno fa non è una festa, nel comitato elettorale poche decine di persone, nessun coro e nessun ballo, un discorso sobrio e fondato sulla responsabilità, sorrisi tirati e un po’ impauriti. L’obiettivo è rassicurare tutti: mercati, Europa, Stati Uniti, establishment italiano. Evitare qualsiasi accenno al passato post fascista, scrollarsi di dosso gli anatemi dell’opposizione e degli altri governi europei. Perché questa trasformazione radicale nei toni della destra italiana nell’arco di una sola generazione?
La risposta include molteplici fattori. Il primo è quello economico: l’Italia ha attraversato la crisi del debito sovrano, dove ha visto aumentare la quota di sovranità politica controllata dall’esterno; poi c’è stato il quantitative easing, cioè una pace sul debito in cambio di comportamenti responsabili sul piano fiscale; infine la crisi della pandemia con la sospensione del patto di stabilità accompagnata dal Next Generation Eu e dal Tpi della Bce, strumenti per riavviare la crescita ma anche per incanalare entro certi binari la politica economica italiana. Uscirne oggi sarebbe troppo costoso e politicamente sconveniente per chiunque. Da ultimo, la crisi energetica, l’emergenza più pressante del presente, che però dipende da eventi incontrollabili per il governo italiano (la guerra, le materie prime) e che necessitano di una soluzione europea se non occidentale.
Ci sono poi motivazioni politiche: leadership sempre più volatili a causa della comunicazione pervasiva e dei repentini mutamenti dell’opinione pubblica, politiche demagogiche che restano promesse inattuabili proprio per i limiti economici, fragilità di partiti e coalizioni che attraversano da oltre un decennio crisi, sfiducia e insoddisfazione diffusa, un sistema che nei momenti topici tende al commissariamento esterno (Monti) o all’autocommissariamento (Draghi), una polarizzazione che alimenta dinamiche di delegittimazione per chi prende posizioni troppo estreme. Ne è conseguito un mutamento culturale che oggi si manifesta nella destra italiana. Il sovranismo è finito, sparito, poiché sono troppe le variabili esterne da pensare di poterle controllare con una sovranità integrale, l’euroscetticismo si risolve oramai in forme più o meno evidenti di protezionismo.
La classe politica, anche quella nazionalista, ha introiettato l’idea che senza un accordo con poteri sovranazionali non si possa governare e che l’economia segua regole solo parzialmente influenzabili dai governi. La destra appare mesta, nonostante la vittoria, perché la realtà la costringe a dissimulare i propri istinti e a piegarsi alla ragion di stato. È per questo che probabilmente osserveremo ad una Meloni “bipolare”: silente e invisibile come Draghi su certe questioni, battagliera e nazionalista su altre.
Sono due facce di un Giano bifronte che la leader di Fratelli d’Italia cercherà di dosare per tenere insieme responsabilità e consenso. Ma i tempi di Gianni Alemanno sindaco di Roma sono lontani, perché la storia ha fatto un grande salto in poco più di un decennio. Ieri la destra ballava in un paese fermo; oggi la destra è ferma in un paese che balla sull’orlo del caos.
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