- Davanti all’apocalisse possiamo disinteressarci del comportamento del giorno dopo, perché tanto tutto finisce. Ma davanti a tutto il resto dobbiamo interessarci di cosa accade il giorno dopo.
- La democrazia e la coscienza di cittadinanza non sono un fenomeno di soglia, non scattano in emergenza, sono prassi. E questo significa che abbiamo diritto a un contesto, il più certo possibile, non di settimana in settimana, ma almeno fino a fine anno.
- Nonostante le evidenze, combatto dentro di me, e fuori, l’idea che la nostra democrazia abbia una prospettiva di due giorni.
L’attesa del Dpcm è essa stessa un Dpcm. Di tipo interiore. Nel senso che, mi pare, i singoli cittadini abbiano un livello di allerta rispetto alla situazione, ai numeri, alle percentuali, superiore a quella dello stato e delle regioni. Quasi chi ci governa non fosse un cittadino come gli altri. Questo mi pare.
I cittadini vivono nel mondo, prendono i mezzi pubblici, portano i figli a scuola, vanno essi stessi a scuola, fanno le file per i tamponi, si autolimitano in caso di contatto con un positivo, valutano se uno spostamento sia o no necessario, sia dal punto di vista lavorativo, che dal punto di vista emotivo.
La questione lockdown locali, coprifuoco, chiusura delle regioni è ancora raccontata con linguaggio agonistico e tono morale, addirittura maschiocentrico riguardo l’utilizzo delle metafore di guerra, per esempio.
Si parla di quale regione chiuderà prima, come se chiudere fosse una colpa, o un fallimento, per esempio. Chiudere non è una colpa, e non è un fallimento, è una necessità, è una misura cautelativa.
Essere arrivati alla necessità della chiusura di alcune zone non è una colpa di tipo morale, non è un fallimento di natura agonistica, è, di certo, una responsabilità politica. Di indecisione, di assenza, di visione politica.
Si parla del virus come di un nemico, si dice stato di guerra, come se il nemico non derivasse da comportamenti che sono radicati da decenni, sono stati finanzianti, e sono stati tenuti da tutti noi in misura minore o maggiore.
Continuare a parlare dei tempi del vaccino, come se il vaccino fosse un miracolo, quasi fosse una procedura istantanea e non necessitasse, invece, di una profilassi di verifica e di una trafila produttiva, è deresponsabilizzante.
Occorre parlare di minimizzazione dei contagi. Per minimizzare i contagi vanno minimizzati i contatti. Il modello epidemiologico con il quale analizziamo l’andamento del virus non è cambiato, è rimasto quello che stiamo illustrando dal mese di febbraio. Evidentemente non lo abbiamo capito. Siamo le prede del virus, ne siamo il nutrimento, per evitare di nutrirlo dobbiamo distanziarci.
Screditare gli scienziati perché non tengono una posizione univoca significa negare, non solo un atteggiamento, ma una prassi costitutiva e costruttiva della scienza. Significa accomunare la scienza alla religione, significa, in ultima analisi, sottintendere che la salvezza, come una grazia, arrivi indipendentemente da noi. E invece dipende da noi. Da ognuno di noi.
Per comprendere i modelli bisogna, intanto, dismettere toni agonistici e morali, osservare i numeri, valutare le percentuali, e, soprattutto, non pensare che la fase esponenziale sia talmente terribile da sollevarci, come davanti all’apocalisse, dalle nostre responsabilità. Di cittadini.
Davanti all’apocalisse possiamo disinteressarci del comportamento del giorno dopo, perché tanto tutto finisce. Ma davanti a tutto il resto dobbiamo interessarci di cosa accade il giorno dopo.
I discorsi di Merkel e Macron, e avrei voluto fosse più netto anche quello di Conte, facevano appello ai cittadini, ma non con disperazione, con responsabilità per la comunità.
L’idea che la democrazia sia qualcosa che debba accontentare la maggior parte delle persone è retriva, è sbagliata, porta a contrapporre, come succede ogni giorno, economia e salute.
La democrazia garantisce i diritti e i doveri della maggior parte delle persone. E garantire i diritti e i doveri non è sinonimo di accontentare, ma di agire e decidere. L’incertezza nella quale camminiamo, muniti di mascherina e disinfettanti alcolici di vario genere, e a distanza, è mal tollerata perché ognuno di noi cerca di stabilire il proprio dpcm personale in accordo e soprattutto in correzione dei dpcm che via via vengono dati, annunciati, sussurrati, anticipati da soffiate e indiscrezioni che avvelenano la dimensione etico-politica del paese ancor più della proliferazione legislativa.
Chiudere una regione o un’altra, ripeto, una zona geografica o un’altra, non è una gara. Siamo una nazione, o non lo siamo. Siamo una democrazia o non lo siamo. Siamo cittadini o non lo siamo.
La democrazia e la coscienza di cittadinanza non sono un fenomeno di soglia, non scattano in emergenza, sono prassi. E questo significa che abbiamo diritto a un contesto, il più certo possibile, non di settimana in settimana, ma almeno fino a fine anno.
Nonostante le evidenze, combatto dentro di me, e fuori, l’idea che la nostra democrazia abbia una prospettiva di due giorni.
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