- Lo scontro sulle pensioni tra i sindacati e il governo mostra ancora una volta le difficoltà di uscire da un vecchio modello di welfare e di affrontare i nuovi rischi sociali.
- Porsi l’obiettivo di una vera riforma vuol dire in pratica cercare di seguire il percorso compiuto dai paesi centro-nord europei, e in particolare da quelli scandinavi.
- Due sono le componenti essenziali di tale percorso: il rafforzamento della previdenza integrativa; e la maggiore e più efficace copertura dei nuovi rischi sociali legati alla accresciuta discontinuità e precarietà dei nuovi rapporti di lavoro.
Lo scontro sulle pensioni tra i sindacati e il governo mostra ancora una volta le difficoltà di uscire da un vecchio modello di welfare e di affrontare più efficacemente i nuovi rischi sociali. Con la conseguenza che la capacità di incidere sulle disuguaglianze crescenti è più ridotta.
È vero che la spesa sociale per abitante è da noi più bassa che nei principali paesi europei, ma le pensioni ne assorbono più della metà: un dato assolutamente anomalo nel contesto europeo. Così come lo è quello della spesa per abitante per pensionamenti anticipati (380 euro contro i 130 della media Ue). A fronte di questa situazione ci si aspetterebbe che i principali sindacati italiani, che si distinguono da quelli strettamente categoriali presenti altrove per la loro tradizione orientata alla difesa più generale del mondo lavoro, prendessero una posizione chiara a favore di una riforma complessiva del welfare (ben diversa dalla mera rimessa in discussione della legge Fornero).
Così come ci si aspetterebbe che facessero sentire la loro voce il principale partito della sinistra ma anche le forze che si richiamano a un liberalismo inclusivo. Porsi l’obiettivo di una vera riforma vuol dire in pratica cercare di seguire il percorso compiuto dai paesi centro-nord europei, e in particolare da quelli scandinavi. Due sono le componenti essenziali di tale percorso: il rafforzamento della previdenza integrativa; e la maggiore e più efficace copertura dei nuovi rischi sociali legati alla accresciuta discontinuità e precarietà dei nuovi rapporti di lavoro, e al mutamento delle relazioni familiari, divenute anch’esse più instabili.
Sotto il primo profilo, si tratterebbe di chiedere sostegno e incentivazione della previdenza integrativa, sia nella forma occupazionale che personale, anche con formule innovative più adatte al nostro paese. Questa strada è già stata seguita da tempo da altri paesi europei (in Germania il 70 per cento dei lavoratori è coinvolto contro il 20 per cento da noi), insieme all’innalzamento dell’età pensionabile.
In prospettiva, con il passaggio al contributivo, questa diventa una strada ineludibile – specie per i giovani ma non solo – per non far scendere troppo l’ammontare delle pensioni rispetto alle ultime retribuzioni.
D’altra parte in molti paesi europei, per far fronte ai nuovi rapporti di lavoro più discontinui, in parte almeno difficilmente eliminabili, si sono introdotte misure di protezione. Esse riguardano una parziale fiscalizzazione del sistema pensionistico, con l’introduzione di programmi – finanziati tramite la fiscalità generale – a favore di quei lavoratori che non riescono a soddisfare i criteri contributivi per accedere alla pensione di vecchiaia.
L’altra tendenza che ci trova molto indietro riguarda le cosiddette nuove politiche sociali, rivolte alla famiglia (conciliazione e congedi, asili nido, servizi per anziani), specie per incoraggiare l’occupazione femminile, e rivolte anche alla formazione e riqualificazione continua del lavoro. Anche da questo punto di vista siamo molto lontani dagli standard di alcuni paesi europei. Ma come si vede non è di questo che discutiamo.
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