Se dividiamo il mondo tra Conservatori e Progressisti allora è chiaro chi stia vincendo oggi, e non solo alle comunali di Pisa o Vicenza, ma a livello Europeo, come testimoniano gli ultimi risultati di Spagna e Grecia. Quello che appare meno chiaro è che tipo di reazioni potrà innescare questa avanzata. Ad esempio, nella politica italiana, la Sinistra pare aver scelto due vie. La prima è la contestazione a tutto campo, talvolta guidata dalla paura che, come 100 anni fa, sia il peccato dell’indifferenza ad accompagnare lo spegnersi dei diritti. La seconda è il silenzio: la ritirata sull’Aventino, tanto per evocare lo stesso periodo storico, e quindi le dimissioni per protesta o l’astensione dal voto per non sentirsi corresponsabili.

Due reazioni che vengono giustificate entrambe con la necessità di difendere la democrazia in pericolo. Ed è curioso come questa stessa motivazione sia avanzata anche dalla Destra per ribaltare le accuse di autoritarismo e porsi specularmente come baluardo del pluralismo, minacciato dall’egemonia culturale e dal famigerato “pensiero unico” imposto dall’avversario.

Un dibattito in cui ogni confronto avviene nel nome della difesa della democrazia è utile per apparire sui media, ma forse non lo è altrettanto per chiarire le idee ai propri elettori che sembrano percepire, meglio delle forze in campo, le incongruenze di questo atteggiamento. Se ci pensiamo bene, infatti, la lotta politica e la lotta per la democrazia sono due elementi che non dovrebbero convivere nella stessa narrazione.

Certo, entrambe le battaglie sono testimonianza del medesimo impegno civile, e nulla vieta di intraprendere ora l’una, ora l’altra, a condizione che si combattano su piani distinti. In uno si lotta per affermare il primato del proprio modello di società, nell’altro per qualcosa che sembra andare nella direzione contraria: il pluralismo delle idee.

Per la verità, fin dagli albori del pensiero politico è apparso chiaro che si trattasse di contese giocate su campi differenti. La politica è figlia del “pólemos”, lo spirito del conflitto. La nostra sopravvivenza ci ha imposto di tentare di placarlo, ma rimane il «padre di tutte le cose» dai tempi di Eraclito: il motore del nostro progresso che ci spinge a migliorarci attraverso il confronto. Dall’altra parte c’è invece il “dêmos”, la cultura del dialogo tra tutte le parti che compongono il popolo sovrano. Un concetto che ci richiede, secondo l’abusata citazione, “di essere disposti a morire perché anche chi non la pensa come noi possa esprimersi”.

Tensione

Chiunque abbia a cuore politica e democrazia dovrebbe essere cosciente che non potrà portare avanti, sempre e in maniera equivalente, entrambe le istanze: ci sono momenti in cui si dovrà scegliere. Manifestare contro il proprio avversario in qualsiasi occasione è una opzione legittima se esercitata senza violenza, ma va riconosciuta come una scelta squisitamente politica che non può stare nella stessa narrazione di una lotta intrapresa affinché tutti possano far sentire egualmente la propria voce.

Se l’opposizione opterà per la via della protesta incessante, ciò comporterà necessariamente una qualche rinuncia al dialogo. Allo stesso modo, dimissioni e astensione non sembrano le strategie più indicate se si deciderà di difendere anzitutto il valore del confronto libero e aperto con l’altro, anche solo perché è difficile parlare con chi non c’è.

Non sono scelte che si possono prendere a cuor leggero: nella nostra civiltà, democrazia e politica sono, in fondo, un riflesso della nostra aspirazione a relazionarci con gli altri e della frustrazione che proviamo quando ci accorgiamo che “gli altri” possono anche essere molto diversi da noi. Sarebbe, però, almeno auspicabile prendere atto della tensione che si origina tra questi due estremi. Perché se le forze della politica continueranno ad accusarsi reciprocamente di uccidere la democrazia finiranno per dimenticarsi che, in fondo, è proprio grazie ad essa che possono farlo.

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