- Con la vittoria di Joe Biden e Kamala Harris, anche negli Stati Uniti il neo-liberismo al tramonto cede il passo a una «nuova sintesi» fondata sul ritorno della politica come leva di cambiamento, e sull’alleanza fra intervento pubblico e mercato.
- L’obiettivo è governare e correggere il capitalismo per ridurre le disuguaglianze, promuovere la rivoluzione ambientale, garantire i diritti sociali.
- Un’alleanza tra Europa e Stati Uniti può ora orientare lo sviluppo economico ai diritti umani complessivamente intesi (civili, sociali, ambientali).
L’Europa non è più sola. Al suo finale l’epoca di Donald Trump ha illuminato, in un’ultima fiammata, tutti i rischi che abbiamo corso. Ma si spegne. Ora la più potente nazione del mondo tornerà ad affiancare l’Europa nella difesa dei valori democratici e negli accordi sul clima.
La nuova amministrazione sarà un po’ più progressista delle due democratiche che l’hanno preceduta, Clinton (1992-2000) e Obama (2008-2016).
È cresciuta negli Stati Uniti una nuova leva politica – ambientalista, femminista, socialista – che ha guadagnato peso anche in queste elezioni.
Spostati a sinistra
La presidenza Biden si muoverà probabilmente su un terreno di incontro fra questa nuova sinistra del partito, che ha in Bernie Sanders il nume tutelare e in Alexandria Ocasio-Cortez l’astro emergente, e quella più centrista tradizionalmente maggioritaria (di Clinton, ma con accenti diversi anche di Obama e dello stesso Biden), ma che quattro anni fa era stata battuta da Trump. E che ora è tornata al potere proprio grazie all’alleanza con la nuova sinistra, che le ha permesso di recuperare alcuni voti della classe media bianca impoverita, negli stati chiave.
Questo incontro porta alla messa in discussione dell’ideologia neo-liberale e del modello di sviluppo americano, che ne è figlio. Un modello che ha esacerbato disuguaglianze e conflitti sociali, finendo per produrre Trump.
Un dato, per tutti: nel 1980, la speranza di vita di un americano era di un anno superiore a quella di un europeo; oggi è di due anni più bassa. Negli ultimi quarant’anni, ogni americano ha perso in media tre anni di vita rispetto a un europeo. E non solo per la privatizzazione della sanità.
Anne Case e il premio Nobel per l’economia Angus Deaton, hanno raccontato il forte aumento della mortalità, in particolare fra i maschi bianchi di mezza età, per suicidi, alcolismo e droghe, come risultato delle politiche neo-liberali che ne hanno precarizzato l’esistenza sotto tutti gli aspetti (Deaths of Despair and the Future of Capitalism, Princeton, 2020).
È il fallimento del sogno americano e della visione neo-liberale, su cui concordano peraltro numerosi altri studi, fra cui quelli di altri importanti economisti (Milanovic, Piketty, Rodrik), anche premi Nobel (Krugman, Sen, Stiglitz; più di recente Banerjee e Duflo).
Sul piano teorico, il neo-liberismo al tramonto cede il passo a una «nuova sintesi» fondata sul ritorno della politica come leva di cambiamento, e sull’alleanza fra intervento pubblico e mercato.
L’obiettivo è governare e correggere il capitalismo per ridurre le disuguaglianze, promuovere la rivoluzione ambientale, garantire i diritti sociali. Vale a dire, orientare lo sviluppo economico ai diritti umani complessivamente intesi (civili, sociali, ambientali), che poi sono la vera ragion d’essere anche del liberalismo, e che invece il capitalismo incontrollato può mettere in pericolo.
L’alleanza necessaria
Per riuscire nell’impresa è necessaria però l’alleanza fra Europa e Stati Uniti. Il Covid, nella sua tragedia, non ha solo (probabilmente) agevolato la vittoria di Biden. Ma ha anche contribuito a cambiare l’Unione europea, come sappiamo. Gli eurobond sono diventati realtà.
Qui da noi la «nuova sintesi» fra intervento pubblico e mercato, fra politica ed economia, è già in atto (benché sia un processo solo agli inizi, tutt’altro che scontato). Su queste stesse coordinate di fondo: ambiente, lotta alle disuguaglianze, governare lo sviluppo tecnologico per garantire benessere e diritti.
Europa e Stati Uniti devono ora collaborare per cambiare (e salvare) la globalizzazione. La lotta alle disuguaglianze dentro ciascun paese rischia di essere poco efficace, infatti, se non si mette mano al sistema finanziario internazionale: scoraggiare i movimenti speculativi (tassandoli), lottare contro i paradisi fiscali (anche all’interno della Ue), tassare in modo equo le multinazionali in base al fatturato realizzato in ogni paese.
Porre un freno alla finanza speculativa crea le condizioni per politiche sociali che evitino, nei paesi ricchi, i contraccolpi della liberalizzazione del commercio – una liberalizzazione che invece è positiva, avendo contribuito all’uscita di miliardi di persone dalla povertà, e va salvaguardata.
L’amministrazione Trump aveva scelto la via opposta: guerre commerciali, mentre la finanza veniva lasciata indisturbata e anzi blandita (e le tasse erano addirittura ridotte per i più ricchi). L’Europa ha risposto con altri dazi. Oggi viviamo in un mondo pericolosamente avviato verso il neo-protezionismo, diviso in grandi blocchi in contrapposizione fra loro. Questa è la peggiore eredità dell’era Trump.
Dobbiamo quindi fare con gli Usa una nuova politica ambientale, riaffermare insieme il valore dei diritti umani. Giusto. Ma dobbiamo anche fare nuovi accordi per il commercio mondiale e modificare, invece, gli aspetti distorsivi della liberalizzazione dei capitali. Possiamo salvare gli aspetti positivi della globalizzazione, tornare a renderla compatibile con la democrazia.
Una «globalizzazione dal volto umano», che consenta di rendere le nostre società più giuste e sostenibili: vincenti, quindi, nella sfida con il capitalismo autoritario che è già in corso, e che aveva in Trump il suo grande cavallo di Troia.
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