- Per mesi il dibattito è stato ostaggio dell’ultima mossa dell’ex Cavaliere che non aveva alcuna possibilità di avere successo.
- Gli interlocutori di Draghi, che ha l’immobilismo assoluto come strategia (finora efficace) di preparazione al passaggio al Quirinale sono stati altri: Gianni Letta, anche Salvini e pure Meloni, perfino Coraggio Italia.
- È stata come una dimensione parallela che ieri finalmente si è scontrata con la realtà.
C’era qualcosa di assurdo nella candidatura, ora ritirata, di Silvio Berlusconi al Quirinale: le possibilità sono sempre state vicine allo zero, perché il centrodestra non sarebbe mai riuscito a rimanere compatto e, al contempo, ad attrarre abbastanza voti da arrivare alla soglia di 505 grandi elettori. Eppure, l’operazione è stata preparata per molti mesi, con un dispiego di energie e persone poco coerente con un’operazione soltanto simbolica.
Già in estate il Giornale di famiglia ospitava pensosi articoli a firma di Silvio Berlusconi con titoli come “La vera lezione cattolica: nessuno va abbandonato” che dovevano riposizionare l’anziano leader come grande saggio del centrodestra liberale italiano, un’operazione intellettuale di cartapesta che aveva retto per oltre un decennio prima che le “cene eleganti” tra prostitute, minorenni, ricatti e bunga bunga ridefinissero per sempre la percezione di Berlusconi agli occhi anche dei suoi elettori.
Quegli articoli poi sono diventati un libretto che l’ormai ex Cavaliere ha usato per iniziare una campagna elettorale tanto inedita quanto vintage, così smaccata che alcuni dei suoi avversari l’hanno perfino accolta con simpatia. Poi sono arrivati i dipinti presi dalla “quadreria” di Arcore, spediti per Natale ad amici da consolidare e vecchi nemici con cui fare pace, infine le telefonate seduttive affidate al persuasivo centralinista Vittorio Sgarbi, parlamentare di quel gruppo misto che sembrava un promettente terreno di caccia.
Una realtà parallela
Anche i collaboratori più vicini a Berlusconi hanno sempre oscillato, nelle loro dichiarazioni pubbliche, tra la malcelata consapevolezza che la conquista del Quirinale fosse impossibile e l’obbligo di mostrare una fiducia posticcia, perché nessuno voleva l’ingrato ruolo del becchino politico di Berlusconi. Tutti hanno finto di credere che, nonostante gli anni, la condanna definitiva per frode fiscale, gli scandali e una salute troppo precaria, Berlusconi potesse farcela.
Forse per le dinamiche tipiche di ogni corte, questo coro di piaggeria ha costruito una realtà parallela intorno all’ex Cavaliere che alla fine ha pensato di avere davvero qualche speranza. All’esterno, nel mondo reale, era chiaro che il suo nome non fosse neanche ipotizzabile e le trattative vere sono andate avanti un po’ a prescindere.
Gli interlocutori di Mario Draghi, che ha l’immobilismo assoluto come strategia (finora efficace) di preparazione al passaggio al Quirinale sono stati altri: Gianni Letta, un po’, ma anche Matteo Salvini e pure Giorgia Meloni, che sta all’opposizione ma punta a essere nella maggioranza che eleggerà il prossimo capo dello Stato. Perfino Coraggio Italia – cioè Giovanni Toti e Luigi Brugnaro – è stato preso più sul serio come interlocutore di Berlusconi.
L’ossessioene e la realtà
La realtà parallela di Arcore e quella vera di Roma si sono toccate soltanto in un attimo, quando dopo 28 anni di politica berlusconiana e 86 di vita, finalmente Gianni Letta ha parlato in pubblico e ha detto una cosa politicamente chiara: il capo dello Stato va scelto guardando “agli interessi del paese e non a quelli di parte”, una banalità che però in quel momento è parsa a tutti netta e rivoluzionaria. Letta stava dicendo che Berlusconi doveva desistere dalla candidatura, così tutti hanno interpretato le sue parole e lui – che pure ha agganci in tutte le redazioni – non ha fatto nulla per fornire una lettura diversa. Ma Berlusconi non si è arreso.
Restava un’ultima, possibile, interpretazione razionale di questa irrazionale ossessione. Berlusconi è stato per molti anni il grande sponsor di Mario Draghi, lo ha voluto come governatore della Banca d’Italia nel 2005, lo ha imposto alla guida della Bce nel 2011 dopo un duro negoziato con Nicolas Sarkozy.
Forse Berlusconi, nell’ipotesi che ci fosse un senso nella sua strategia, voleva portare l’illusione della sua candidatura fino all’ultimo secondo utile, per rimanere il protagonista delle trattative e la guida del centrodestra, e poi sfilarsi, e diventare ancora una volta il grande elettore di Draghi. E invece no.
Il ritiro della candidatura
L’annuncio del ritiro della candidatura, al termine di un pomeriggio di febbrili negoziati ma prima di un vertice mai iniziato, ha coinciso con l’auspicio che Draghi resti a palazzo Chigi. Una indicazione data peraltro da Antonio Tajani, eterno delfino e reggente di una Forza Italia in disfacimento, assieme alla deputata Licia Ronzulli. Difficile immaginare che i due abbiano fornito una posizione diversa da quella di Berlusconi che neanche si è presentato alla videoconferenza con Salvini e Meloni, anche se ormai nel mondo parallelo del centrodestra soggiogato da Arcore tutto è possibile.
Di sicuro la mossa ha spiazzato molti al governo e a palazzo Chigi: le interlocuzioni con il centrodestra, più con Salvini che con gli emissari di Berlusconi, andavano da giorni ormai in tutt’altra direzione. Proprio il leader della Lega ha cambiato la campagna quirinalizia quando l’11 gennaio ha annunciato, un po’ a sorpresa, che non aveva alcuna intenzione di ritirare la Lega dalla maggioranza in caso di elezione di Draghi al Colle.
Anzi, voleva tornare al governo in prima persona – magari proprio al suo ministero dell’Interno – assieme agli altri leader di partito, per garantire la tenuta della legislatura, mantenere la presa sulla Lega ed evitare che gli alleati del centrodestra si accordassero con Pd e Cinque stelle per una legge elettorale proporzionale che piace a tutti tranne che ai leghisti.
Le trattative sul dopo-Draghi – che nel gergo di Enrico Letta, lato Pd, si chiamano “patto di legislatura” – sono ormai diventate così concrete da includere anche un possibile identikit del presidente del Consiglio: di fiducia di Draghi, senza ambizioni future, estraneo al sistema dei partiti ma non ostile, cioè Vittorio Colao, attuale ministro alla Transizione digitale, il tecnico del quale il premier è più soddisfatto e l’unico che, saggiamente, è rimasto quasi muto per tutta la durata del suo mandato a differenza di altri ministri molto loquaci.
Ora Berlusconi dice che Draghi deve restare a palazzo Chigi, quasi un’umiliazione a questo punto, visto che un po’ tutti i partiti sono gradualmente arrivati a sostenere che forse Draghi non è poi così indispensabile alla guida di un governo che sarà quasi impotente man mano che si avvicina la fine della legislatura. Se il premier gode davvero di tanta stima trasversale, meglio averlo al Quirinale come garante per sette anni che sfiancarlo come mediatore frustrato tra partiti in campagna elettorale per pochi mesi.
Il ritiro di Berlusconi, insomma, è stato gestito in modo ancora più disastroso della sua campagna elettorale. In un sol colpo ha perso l’occasione di diventare il grande elettore di Draghi, ha dimostrato di non essere più alla guida del centrodestra, ha rivelato la sua impotenza personale, prima che politica, con quella dichiarazione per interposta persona che “i numeri ci sono” ma comunque lui si ritira per “responsabilità nazionale”, anche se non c’è alcuna connessione tra questi due concetti.
La candidatura di Berlusconi forse è sempre stata soltanto quello che sembrava. Un atto velleitario e impossibile di un leader a fine carriera che non era più consapevole dei propri limiti. I suoi alleati lo hanno assecondato, come si fa con i parenti non più lucidi, fino quando la sua senile impotenza non è diventata così insostenibile da schiacciare anche l’ambizione più irrazionale. Qualunque sia la lettura corretta, la fine politica di Berlusconi è stata coerente con il resto della sua carriera. Una barzelletta che non faceva ridere.
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