Mentre a Napoli si tiene la conferenza sul “patrimonio culturale nel XXI secolo”, la tentazione è di cercare nell’organizzazione un paravento internazionale per salvaguardare quello che non riusciamo più a tutelare
Si tiene a Napoli, dal 27 al 29 novembre, la Conferenza dell’Unesco sul “Patrimonio culturale nel XXI secolo”, organizzata dal ministro degli Esteri Antonio Tajani e dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano con il supporto del sindaco Gaetano Manfredi. Tre giorni di dibattito per confrontarsi su tematiche chiave come il rapporto tra cultura e sviluppo sostenibile, i beni culturali in tempo di guerra, la tutela delle diversità culturali. A 51 anni dalla convenzione Unesco sul patrimonio culturale tangibile, la Conferenza di Napoli mira, quindi, a fare un bilancio e a tratteggiare le linee di sviluppo delle politiche globali per i prossimi anni.
A Napoli occorrerà fare i conti anche con il fatto che l’Unesco sia percepita, specialmente in Italia, come un marchio di qualità e non come la conclusione di un lungo percorso di pianificazione territoriale.
Secondo un rapporto elaborato dalla cattedra Unesco dell’Università Unitelma Sapienza di Roma, nel 2021 76 comuni hanno annunciato una candidatura in una delle liste Unesco; nel 2022 la cifra è salita a 85 e nei primi dieci mesi del 2023 sono già 103 le amministrazioni pubbliche territoriali che hanno invocato l’Unesco.
Il paravento
La creatività italiana si sfoga con una serie variegata di candidature promesse: dal pesto genovese al ballo liscio, dai paesaggi del Verdicchio a quelli del Chianti Classico, dai carri di grano alle feste religiose. Spesso, tuttavia, ci si ferma all’inizio: nel 90 per cento dei casi l’annuncio del sindaco di turno non è seguito da alcun atto concreto e, a volte, ci si accontenta di una targa rilasciata da un circolo fasullo “amici dell’Unesco” (che con le Nazioni unite nulla c’entrano).
Le ragioni di questa “frenesia da Unesco” - tale per cui tutti lo vogliono e tutti lo cercano senza sapere cosa esso implica in realtà – sono almeno tre.
In primo luogo l’Unesco è diventato una sorta di paravento dietro il quale nascondere le difficoltà amministrative nella gestione del bene culturale. Il recente caso della Torre della Garisenda di Bologna è interessante: dopo aver accertato lo stato di pericolo del bene, il comune ha invocato l’Unesco ben sapendo che possono essere iscritti nella lista dei patrimoni dell’umanità solo quei siti che le istituzioni già proteggono al massimo livello possibile e che, in fase di valutazione, è essenziale dimostrare che il bene candidato sia in ottimo stato di conservazione.
Non a caso il ministro Sangiuliano ha replicato ricordando che «l’ingresso di un sito nella lista Unesco non elimina i problemi» e che da Parigi «non arriverà nessun supereroe a sostenere la Torre».
La visibilità
In secondo luogo in molti vedono nell’Unesco il volano per le loro economie locali. D’altronde secondo i dati forniti dalle associazioni che gestiscono i paesaggi delle Langhe o di Conegliano e Valdobbiadene, il turismo è cresciuto del 300 per cento nei due anni successivi all’iscrizione nella lista dei patrimoni dell’umanità. Non stupisce, quindi, che ad invocare il riconoscimento siano, per lo più, i territori delle aree interne, emarginate rispetto ai grandi flussi turistici, sostanzialmente privi di una gestione efficiente del proprio patrimonio culturale, materiale o immateriale.
In terzo luogo c’è un motivo di visibilità. Secondo un sondaggio realizzato dall’Università Iulm il 98 per cento degli italiani attribuisce al “brand” Unesco una reputazione eccezionale. In un paese dove tutto è bellezza, per dimostrare di essere più belli si cerca la certificazione di una organizzazione internazionale. In alcuni casi, però, questa corsa ad un presunto oro produce il positivo effetto di alzare il livello di attenzione su un certo bene culturale e costringere anche gli attori istituzionali più riottosi ad approvare politiche di salvaguardia.
Luci ed ombre, dunque, che la Conferenza di Napoli affronta e i cui esiti serviranno anche a quegli amministratori “annunciatori” che vedono nell’Unesco una fuga dalle proprie responsabilità e che non comprendono che il patrimonio culturale va tutelato a prescindere da ogni certificazione esterna.
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