- Uno dei principali ostacoli a sbloccare la crisi di governo è che nessuno sa chi comandi nel Movimento Cinque stelle. Di sicuro non Giuseppe Conte, che pure è il presidente, o almeno non soltanto Conte.
- Conte non voleva l’arrivo del governo Draghi a febbraio 2021, ma ha fallito nell’operazione di reclutamento di un gruppo di “responsabili” in grado di puntellare la sua maggioranza dopo la rottura con Italia viva di Matteo Renzi.
- E forse non voleva davvero neppure la caduta di Mario Draghi. Ma l’unica costante nella traiettoria politica di Conte, finora, sembra essere la distanza che separa le ambizioni dai risultati.
Uno dei principali ostacoli a sbloccare la crisi di governo è che nessuno sa chi comandi nel Movimento Cinque stelle. Di sicuro non Giuseppe Conte, che pure è il presidente, o almeno non soltanto Conte. Dà il senso del vuoto al vertice una nota dello stesso Rocco Casalino, arrivata ieri mattina per smentire alcuni articoli di giornale che lo davano tra i registi delle ultime mosse: «Premesso che non avendo incarichi politici non seguo le riunioni del Consiglio nazionale né partecipo a confronti di natura politica nei quali viene poi definita la linea politica del M5s, vorrei ribadire ancora una volta che il mio ruolo è limitato all’ambito comunicativo».
Quindi, il principale punto di riferimento dei giornalisti che cercano di seguire la crisi sul lato Cinque stelle specifica ai giornalisti che lui si occupa di comunicazione, ma senza partecipare alle riunioni del Consiglio nazionale e «a confronti di natura politica». Praticamente un passante, che ne sa quanto o meno i giornalisti che a lui si rivolgono.
Sono lontani i tempi in cui Casalino scriveva addirittura un libro per celebrare la rilevanza del suo ruolo a fianco di Conte (Il portavoce). Però ha ragione quando, sempre nella sua nota di smentita, osserva che: “Nell’ultima settimana, su due dei maggiori quotidiani italiani, sono stato prima messo “in panchina” e poi ritratto come un “triumviro” che decide le sorti del Paese: narrazioni confuse, contraddittorie, che sono accomunate solo dall’uso improprio del mio nome e dalla precisa volontà di attaccare me per colpire Conte”
La crisi interna
Da quando si è aperta la crisi, il Movimento Cinque stelle è sembrato completamente allo sbando. La tensione deflagra con una intervista a Domenico De Masi, sociologo e collaboratore del Movimento, che racconta al quotidiano di cui è editorialista (Il Fatto) presunte telefonate di Mario Draghi a Beppe Grillo per chiedere la sostituzione di Conte alla guida del partito. De Masi già da settimane spingeva per la rottura tra Cinque Stelle e Draghi, come aveva detto in una intervista a Domani il 20 maggio: «Io, se fossi Conte, uscirei dal governo. Anzi, non ci sarei mai andato a governare con Draghi. È un governo neoliberista con qualche raro spruzzo socialdemocratico».
Ma sono le parole sui contatti Grillo-Draghi che scatenanto la valanga. Bizzarro modo di sollevare il problema visto, stando a quanto dichiarato dai protagonisti della vicenda, lo stesso Conte era già edotto di queste comunicazioni (smentite dal premier) ma non ne aveva mai fatto cenno pubblicamente e mai le cita nel documento che poi formalmente ha aperto la crisi, cioè i nove punti presentati a Mario Draghi un paio di giorni prima della mancata fiducia in Senato sul decreto Aiuti.
E anche quel passaggio è strano: la crisi innescata dalle presunte reazioni di Draghi all’ostruzionismo di Conte si declina in una lista di richieste di politiche, dal salario minimo alla difesa del reddito di cittadinanza e del superbonus edilizio, tanto vaghe quanto sovrapposte in gran parte all’agenda di governo.
Però poi deflagra su un argomento che non c’entra niente con nessuno dei due precedenti, non con la questione personale e neppure con le politiche anti-crisi: i poteri straordinari al sindaco di Roma Roberto Gualtieri per lavorare alla costruzione di un termovalorizzatore a Roma, per bruciare rifiuti.
Il problema ministri
L’altra stranezza che denota l’assenza di ogni leadership nel Movimento è il rapporto con i ministri: mentre Conte spinge il Movimento alla rottura, giovedì sul voto in Senato, il ministro pentastellato per i rapporti col Parlamento Federico D’Incà tenta un’ultima mossa per disinnescare la crisi e spacchettare il voto sul termovalorizzatore dal resto. In modo da non trasformare la contrarietà su un punto specifico in una sfiducia complessiva.
A strappo avvenuto, l’altro ministro pentastellato di peso, Stefano Patuanelli (Agricoltura), cerca di spingere Conte su una posizione che costringa Draghi al dialogo ma senza far cadere il governo. Patuanelli suggerisce a Conte di annunciare pubblicamente il voto di fiducia del Movimento Cinque stelle al governo Draghi, al prossimo passaggio parlamentare, in modo da non assumersi la responsabilità della caduta del premier ma continuando a tenerlo sotto pressione sui temi cari ai Cinque stelle.
Invece niente. Conte non annuncia il sostegno, anzi, tutti i segnali che fa filtrare ai giornali sono nella direzione opposta. Come se volesse sfruttare l’occasione, generata in modo piuttosto poco ordinato, per spingere l’esecutivo a un punto di non ritorno. Verso le elezioni o almeno verso un governo di transizione senza Draghi.
Eppure non fa l’unica cosa che sarebbe davvero utile, se quello fosse il suo obiettivo ultimo: ritirare i ministri dal governo, in modo da prendere atto di ciò che Draghi ha già sancito con le dimissioni al Quirinale, cioè che la mancata fiducia di giovedì equivale alla fine della maggioranza nata nel febbraio 2021.
Il Conte sospeso
Conte resta sospeso a metà, belligerante ma non risoluto, indifferente alle pressioni del Partito democratico per ridefinire un nuovo equilibrio che consenta di salvare Draghi e la legislatura. E così finisce per essere in balia degli eventi, continua a convocare ora dopo ora il Consiglio nazionale del Movimento, che non ha mai avuto un vero potere decisionale autonomo da quello del capo (che, va ricordato, all’inizio del suo mandato da presidente era andato allo scontro con Beppe Grillo per rivendicare la titolarità piena dell’azione di indirizzo politico).
Il risultato è che a prendere le decisioni sono gli altri. Ormai sembra già storia lontana, ma vale la pena ricordare che a dare il significato di un rottura irrevocabile alla mancata fiducia sul decreto Aiuti non è stato Giuseppe Conte, ma Silvio Berlusconi che è uscito un po’ a sorpresa con una nota che chiedeva una «verifica di maggioranza».
Subito dopo si è aggregato Matteo Salvini che ha spostato la Lega su posizioni di intransigenza: mai più al governo con l’alleato di un tempo, i Cinque stelle sono troppo inaffidabili.
Conte non voleva l’arrivo del governo Draghi a febbraio 2021, ma ha fallito nell’operazione di reclutamento di un gruppo di “responsabili” in grado di puntellare la sua maggioranza dopo la rottura con Italia viva di Matteo Renzi. E forse non voleva davvero neppure la caduta di Mario Draghi. Ma l’unica costante nella traiettoria politica di Conte, finora, sembra essere la distanza che separa le ambizioni dai risultati.
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