- Mi dispiace tanto per Michele Santoro, un collega che ho sempre apprezzato, ma non è stata una buona scelta quel titolo del libro, Nient’altro che la verità, e ancora meno affidarsi a un mafioso così poco attendibile come Avola.
- In molti hanno gridato subito al depistaggio. Non ho elementi per affermare se si tratti di depistaggio o meno: allo stato delle cose mi sembra semplicemente una grande patacca.
- Fa specie piuttosto che la “confessione” di Maurizio Avola non sia stata scrupolosamente verificata dagli autori del libro (cosa che hanno fatto i procuratori di Caltanissetta, i titolari dell'inchiesta sulla morte del magistrato).
Era da molto tempo che non venivano dette e scritte tante sciocchezze sulla mafia e sulle bombe del 1992. E per giunta con l'aggravante di un'alterigia tutta raccolta in un titolo, sintesi perfetta di chi non conosce modestia né limiti nel misurarsi con una questione estremamente complessa e inquietante come le stragi che hanno fatto tremare l'Italia. Basterebbe infatti solo quel titolo, Nient'altro che la verità, per diffidare altamente del contenuto di un libro spacciato come «un racconto in grado di rivoluzionare 30 anni di storia del nostro paese».
Mi soffermo su questo punto, senza scomodare per il momento quel fanfarone di Maurizio Avola. È un titolo borioso e insieme maleducato perché è un insulto all’intelligenza, alla fatica di chi vuole capire, allo sforzo di coloro che per quasi tre decenni si sono impegnati nel ricercare la più credibile delle ricostruzioni e il più plausibile dei moventi sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino. È uno spot, calato in una vicenda italiana che più di tante altre conserva segreti. È la presunzione di “riscrivere la storia” in qualche centinaio di pagine dopo tre decenni di depistaggi, di falsi pentiti, di revisioni di processi, di indagini sulle indagini, di opacità giudiziarie, di scorribande sbirresche, milioni di atti spazzati via da un perentorio e inappellabile.
Nient’altro che la verità.
Mi dispiace tanto per Michele Santoro, un collega che ho sempre apprezzato, ma non è stata una buona scelta quel titolo e ancora meno affidarsi a un mafioso così poco attendibile come Avola per “sparare” in un talk show improbabili retroscena di un attentato. In molti, riflesso pavloviano, hanno gridato subito al depistaggio. Non ho elementi per affermare se si tratti di depistaggio o meno: allo stato delle cose mi sembra semplicemente una grande patacca. Troppo grossolane le panzane del mafioso catanese, troppo inverosimile la sua versione dei fatti per immaginare un’“operazione di deviazione” (indipendentemente da Santoro, naturalmente) dopo le molte altre già avvenute intorno alla strage di via D'Amelio.
Fa specie piuttosto che la “confessione” di Maurizio Avola non sia stata scrupolosamente verificata dagli autori del libro (cosa che hanno fatto i procuratori di Caltanissetta, i titolari dell'inchiesta sulla morte del magistrato), fa specie anche la mancanza di un'analisi approfondita su quei 56 giorni che separano Capaci da via D'Amelio, la decisione di uccidere anche Borsellino dopo Falcone, il ruolo di Totò Riina che con il secondo attentato ha praticamente decretato la fine dei Corleonesi. Se c'è una strage di mafia che, per le sue caratteristiche e per i suoi tempi, non è solo strage di mafia è proprio quella del 19 luglio.
Eppure Avola ce lo smentisce con sospetta naturalezza e Michele Santoro fa a tutti – con trentasei anni di ritardo – la lezioncina sulla Cosa Nostra siciliana che è "soggetto politico” e che è autonoma, che non prende ordini da nessuno e che quindi ha fatto tutta da sola anche in via D'Amelio. Lo sappiamo dal 1985 (da quando ce l'ha spiegato il giudice Falcone nella sua ordinanzanza-sentenza del maxi processo) che Cosa Nostra è “autonoma” e sappiamo però anche delle “convergenze di interessi” che ci sono sempre state con altre entità e poteri criminali. Cosa ci rivela alla fin dei conti Nient'altro che la verità? Che sulla mafia, nel migliore dei casi, l'approssimazione fa grossi danni.
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