- C’è un passaggio del discorso di Draghi in Senato, mercoledì scorso, che rappresenta un clamoroso errore: quando il Presidente, guardando i senatori, ha rivendicato di essere in quell’Aula “solo perché gli italiani lo hanno chiesto”
- A partire dagli anni ‘90, quando un governo è entrato in crisi ci sono sempre state mobilitazioni di piazza per sostenere il Presidente uscente e invitare il Parlamento a confermare la fiducia: dai groupies berlusoniani alle manifestazioni pro-Conte in piena pandemia.
- L’idea del “popolo” che chiede al potente di turno di decidere in un certo modo e il potente lo asseconda, al di fuori delle procedure definite dal sistema costituzionale, è naturalmente una idea antidemocratica.
C’è un passaggio del discorso di Draghi in Senato, mercoledì scorso, che sarà ricordato negli anni: quando il presidente, guardando i senatori, ha rivendicato di essere in quell’aula «solo perché gli italiani lo hanno chiesto» con una mobilitazione «da parte di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del Governo senza precedenti e impossibile da ignorare».
Questo passaggio è un clamoroso errore, per due motivi. Il primo perché è una affermazione priva di fondamento; il secondo perché avvalla una visione confusa della democrazia costituzionale.
A partire dagli anni Novanta, dinanzi a una crisi di governo abbiamo sempre visto manifestazioni (di piazza o virtuali) a sostegno del presidente uscente. La prima risale al Natale del 1994 con la crisi del primo governo Berlusconi. Più eclatante quella a sostegno di Romano Prodi dimessosi nel 1998 dopo il voto di sfiducia di una componente della maggioranza (Rifondazione Comunista).
Con la diffusione dei social, queste forme di sostegno si sono fatte più pressanti. Sia la prima che la seconda e definitiva crisi del governo Letta, nel 2013 e nel 2014, hanno visto il fiorire di appelli di intellettuali, sportivi, accademici, ricercatori e gente comune con inviti a continuare.
In questa occasione, addirittura, qualcuno si spinse ad aprire profili social per sostenere singoli ministri di quel governo come, su Facebook, la pagina «toglietemi tutto ma non il mio Bray» (Massimo Bray era ministro della Cultura).
Stesso trattamento fu riservato a Matteo Renzi quando lasciò Palazzo Chigi al collega Gentiloni. L’apoteosi, infine, si è avuta proprio con Giuseppe Conte: sia in occasione della conclusione del Conte 1 che, soprattutto, del Conte 2, gli spazi virtuali furono inondati di sostenitori del presidente uscente e ci fu una sollevazione di piazza – peraltro in tempo di Covid – davvero mai vista prima.
La seconda questione è, però, quella più critica. Lo ha segnalato, con la sua consueta diplomazia, Pier Ferdinando Casini ricordando al Premier il senso della democrazia parlamentare («Lei è qui oggi non solo perché gliel'hanno chiesto gli italiani: lei è qui perché non c'è stato un voto di sfiducia in parlamento») e il rischio di evocare il popolo in modo improprio.
L’idea del “popolo” che chiede al potente di turno di decidere in un certo modo e il potente lo asseconda, al di fuori delle procedure definite dal sistema costituzionale, è naturalmente una idea antidemocratica. Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha scritto un libro breve ed efficace intitolato Il Crucifige e la democrazia.
Zagrebelsky racconta la crocifissione di Gesù ma lo fa dal punto di vista del diritto costituzionale, mettendo in pericolo i potenti dal richiamo al popolo quale fonte di determinazione delle proprie scelte, dal principio “vox populi vox dei” cui fanno affidamento Pilato e il Sinedrio rimettendo la vita di Gesù alla volontà della folla e, così facendo, adulandola e divinizzandola.
«Tutti coloro i quali santificano il popolo», ricorda Zagrebelsky, «fanno così per poterlo usare; che tutte le volte in cui si dice: il popolo ha parlato – la questione è chiusa, si è in presenza di una concezione strumentale della democrazia».
Siamo certi che non sia questa la visione di Draghi e la sua replica lo ha chiarito: ma quelle parole restano e forse dimostrano che, per fare il presidente del Consiglio, non basta essere il più autorevole e il più stimato ma occorre conoscere e condividere il linguaggio della politica.
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