- «Il nostro diritto del lavoro è diventato una materia di forte richiamo anche per l’opinione pubblica. Solo qualche tempo fa nessuno avrebbe mai immaginato che sulle riforme del mercato del lavoro si scaricasse una fortissima attenzione dei mezzi di informazione» scriveva Biagi.
- Le trasformazioni economiche e sociali, in particolare quelle che incidono direttamente o indirettamente sul lavoro sono da sempre fautrici non solo di dibattiti ma piuttosto di veri e propri scontri che generano ferite profonde.
- E allora sarebbe utile riprendere alcune intuizioni di Marco Biagi che vent’anni fa hanno generato una campagna d’odio.
«Il nostro diritto del lavoro è diventato una materia di forte richiamo anche per l’opinione pubblica. Solo qualche tempo fa nessuno avrebbe mai immaginato che sulle riforme del mercato del lavoro si scaricasse una fortissima attenzione dei mezzi di informazione».
L’attualità di questa frase di Marco Biagi a vent’anni esatti dalla sua drammatica morte dovrebbe farci riflettere su questa che era la missione del professore bolognese e che era all’origine delle non poche difficoltà alle quali andò incontro, fino a sacrificare la vita.
Le trasformazioni economiche e sociali, in particolare quelle che incidono direttamente o indirettamente sul lavoro, e quindi sulla vita delle persone, sono da sempre fautrici non solo di dibattiti ma piuttosto di veri e propri scontri che generano ferite profonde, difficili da rimarginare. La storia recente in Italia ne è testimone, da ultimo proprio con la morte di Marco Biagi.
Tempi diversi?
Ma anche oggi, pur in un clima nel quale, per fortuna, la violenza fisica (almeno quella attuata e non solo minacciata) lascia spazio solo a quella verbale, parlare delle radicali trasformazioni nella loro complessità è impresa ardua.
Infatti laddove si mettano in discussione non tanto i principi quanto piuttosto loro attuazioni storiche, e quindi in quanto tali soggette all’evoluzione, si è spesso duramente attaccati da chi confonde appunto la salvaguardia dei valori con il conservatorismo sociale.
Ma non solo, a ciò si aggiunge l’incapacità del dibattito pubblico di rappresentare i cambiamenti nei loro molteplici aspetti, presi da un’ansia di semplificazione che, banalizzando la realtà, non può che portare ad ideare soluzioni dalle quali la realtà sfugge facilmente. E allora sarebbe utile riprendere alcune intuizioni di Marco Biagi che vent’anni fa hanno generato una campagna d’odio e una identificazione delle sue idee con una falsa e infamante volontà di distruggere i diritti dei lavoratori.
Guardando, a differenza di quasi tutti gli altri, quello che accadeva negli altri paesi del mondo Biagi aveva intuito come le sicurezze sociali costruite intorno al rapporto individuale di lavoro subordinato non solo erano messe in crisi da un nuovo assetto globale dei processi produttivi e da nuovi modelli di organizzazione del lavoro, ma anche che le persone che beneficiavano di queste supposte tutele erano sempre più una quota minoritaria del mercato del lavoro.
E proprio cercare di riportare tutti i lavoratori, soprattutto quelli che si muovono in quell’area grigia che sta tra il lavoro subordinato e quello autonomo, per non parlare di quelli che sono vittime del lavoro irregolare, all’interno delle categorie tradizionali era ed è una missione impossibile e una grande illusione, soprattutto per i lavoratori stessi.
Lavoro e retribuzione
La tentazione di identificare valori assoluti quali la dignità del lavoro o principi come la giusta retribuzione unicamente con un modello storico, come se fosse esso immune alle trasformazioni, è ciò che rende inaccessibile al dibattito qualunque voce differente. Perché quella voce differente non starebbe mettendo in discussione, forte dei dati di realtà, una specifica manifestazione storica ma un valore assoluto.
E così strumenti di assoluta attualità, riconosciuti da un acuto osservatore non certo accusabile di voler combattere le tutele dei lavoratori come Aris Accornero, come il contratto a progetto sono stati, anche per lo snaturamento dell’idea e per applicazioni che andavano molto oltre i confini originari, bollati ed espulsi dal dibattito pubblico.
Uno strumento che sembra invece rispondere e non poco ad esigenze di tutela di lavoratori che si trovano sempre di più a lavorare, di fatto, con logiche che hanno alcuni elementi tipici del lavoro autonomo e altri tipici del lavoro subordinato. Che non sono inseriti in processi che hanno la durata tipica dei cicli di vita dei prodotti degli anni settanta e che hanno interesse a sviluppare percorsi di carriera mutevoli ma tutelati.
Per non parlare dell’altra grande idea attuale di Biagi, quella di uno Statuto dei lavori che non abbia l’obiettivo di ridurre le tutele garantite dallo Statuto dei lavoratori ma quello di ricomprendere anche tutte quelle persone che la legge del 1970 non ricomprende. E soprattutto di garantire strumenti che riconoscano la differenza specifica delle tutele a seconda dei settori produttivi e delle tipologie di lavoro a partire da una base comune di tutele che riguardi i lavoratori e chi cerca un lavoro indipendentemente dal loro status.
Si tratta di concetti che, ad esempio, il Pilastro europeo dei diritti sociali della Commissione Europea ha espresso in modo analogo a partire dal 2018. Aprirsi alla comprensione della realtà senza pregiudizi è quindi oggi più che mai urgente in un mondo che fatichiamo a capire e a interpretare con le categorie del passato, e questo Marco Biagi l’aveva capito bene.
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