- Per incentivare le imprese a quotarsi il governo approva un disegno di legge che, neanche fossero bimbi viziati, recepisce tutte le loro richieste.
- Inclusa la moltiplicazione per dieci dei diritti di voto dei controllanti, e pure lo stop alle domande spontanee in assemblea, ma se le imprese non si quotano è per altri motivi che il ddl non rimuove.
- Pesa soprattutto la mancanza di investitori interessati a comprare quei titoli; essi non saranno certo attratti dal conferimento ai controllanti di poteri di gestione sproporzionati al loro impegni finanzari.
«Chiedete, e vi sarà dato» è il messaggio del primo governo italiano di destra-destra ai clientes. In cima alla lista stanno gli evasori, certi che un governo Meloni non li avrebbe mai infastiditi: di qui le promesse di pace fiscale, il concordato preventivo sulle imposte, il rifiuto di aggiornare il catasto, l'aumento della soglia per gli acquisti in contanti, etc.
Alla Camera Meloni ha promesso di «Non disturbare chi vuol fare», ma le richieste delle imprese possono essere giuste o sbagliate; le prime vanno accolte, le seconde no. Può agir bene solo chi conosca i problemi su cui legifera, e consideri l'insieme degli interessi della Repubblica italiana, nome e cognome della nazione.
Non lo fa il “disegno di legge Capitali”, approvato dal Consiglio dei ministri l'11 aprile per indurre le imprese a quotarsi in Italia.
Chi vorrà quotarsi altrove lo farà comunque per altri motivi, incluso l'approccio burocratico di organi come Consob, ove, a parte rare eccezioni, scarseggia la cultura di mercato. Non saranno i due commissari testé nominati a mutare le cose.
Le richieste dei clientes
Il ddl ha sì qualche novità positiva, come la riduzione, da due a un anno, del “raffreddamento” necessario perché chi viene dal mercato possa entrare in Consob, e del corrispondente periodo in uscita. La norma vigente impone invece a questi di starne via per quattro anni; ciò assicura che i commissari siano solo a magistrati e docenti.
Col ddl Meloni e Giancarlo Giorgetti, ministro dell'Economia, quello che passa per “draghiano”, contentano le imprese grandi ma anche le piccole e medie (pmi), facendo a pezzi il Testo unico della finanza (Tuf), la “legge Draghi” dal nome del direttore del Tesoro che ne coordinò la redazione.
Il ddl recepisce numerose richieste dei clientes; esse cozzavano col Tuf, di cui resteranno solo sparse vestigia. Il piccone ha lavorato a fondo. Via l'essenziale requisito del quorum dei due terzi per gli aumenti di capitale, che permette alla minoranza coalizzata di bloccare delibere sbilanciate a favore della maggioranza. Esso era stato già sospeso per qualche mese nel 2014 dal governo Letta per consentire, a chi lo volesse, l'adozione del voto plurimo.
La nuova sospensione vale tre anni; facile prevedere che alla scadenza il quorum sparirà per sempre, e con questo la difesa delle minoranze.
Niente domande faccia a faccia
Via anche l'assemblea in presenza, con gli amministratori al tavolo e gli azionisti in platea a far domande, a volte ricattatorie, altre volte giuste ma scomode.
Ora le domande saranno solo fatte per iscritto, alcuni giorni prima della virtuale assemblea; a volte questa era solo teatro scadente, è vero, ma restava il solo modo per sottoporre gli amministratori al vaglio dei “padroni”. In una società di capitali di un'economia di mercato sarebbe il “minimo sindacale”.
Soprattutto il ddl alza il moltiplicatore dei voti per gli azionisti di controllo, dall'attuale parametro di due o tre, a dieci. Ogni azione da questi detenuta peserà dieci volte quelle del “parco buoi”. Ne gioirebbe Enrico Cuccia, per cui le azioni non si dovevano contare, ma pesare. Il governo, lesto a contentare il bimbo che chiede nuovi giocattoli, non si chiede come crescerà la prole viziata. Via anche i limiti alla quotazione delle scatole cinesi. Neanche hanno imposto contropartite per i nuovi balocchi.
Se manca l'esperienza per gestire la materia, forse non sanno quel che fanno. Le imprese non si quotano per altri motivi, e chi per oltre trent'anni ci ha lavorato azzarda qualche modesta riflessione. Va anzitutto detto che la quotazione sul mercato di titoli quotati ogni giorno è in calo ovunque; si tende a sostituire i volatili fondi là raccolti con altri, di private equity, più stabili nel tempo, riservati a investitori forti. Il fenomeno ha grande rilievo politico, per il peso assunto negli Stati Uniti da tali fondi, ma trascende il nostro tema.
La tassazione degli interessi passivi
In Italia abbiamo tante medie imprese – le piccole sono inadatte alla quotazione – che non si quotano sui mercati dei capitali per diverse ragioni. Il ddl può rimuoverne solo alcune, e minori. Ben di più pesa l'ancor generosa deducibilità fiscale degli interessi passivi, che scoraggia la ricerca di mezzi propri, carenti in molte di tali imprese. Chi avrebbe un serio interesse a quotarsi è però frenato da qualcosa che il ddl affronta solo “di striscio”. Mancano, semplicemente, gli investitori interessati a sottoscrivere quelle azioni, in quantità sufficiente a consentire il collocamento prima, poi un mercato liquido e spesso, per chi voglia comprare o vendere. Senza investitori non c'è operazione.
Non li attrarrà la riduzione degli obblighi per i controllanti o degli oneri informativi delle quotate; fra le cause del disinteresse per tali imprese c'è proprio la scarsità di informazioni.
Attrarre gli investitori sarà in futuro ancor più importante di prima, ma il governo è fermo a quando abbondavano; difficile che accorrano in massa per conferire ai controllanti, indefinitamente, poteri sproporzionati all'impegno finanziario.
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