Che la strategia europea della presidente del Consiglio Giorgia Meloni sia stata fallimentare è dato di fatto acquisito anche tra i suoi sostenitori, almeno quelli intellettualmente onesti. La premier nell’ultimo anno ha scommesso su due mani di poker che giudicava vincenti: un massiccio spostamento a destra del parlamento europeo alle elezioni del 9 giugno e i buoni uffici con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.

Un disegno che ha escluso, quasi per principio, interazioni decenti con i leader centristi o socialisti dei grandi paesi come Francia, Spagna e Germania, e rapporti essenziali con l’establishment di Bruxelles. Convinta del fatto suo, Meloni ha snobbato chi le suggeriva maggiore moderazione sui tavoli, pena la trasformazione del governo italiano in un paria alla Viktor Orbán.

Ahinoi, il doppio azzardo presidenziale si è rivelato una disfatta. Prima gli amici conservatori del Pis polacco – che pure hanno recentemente tentennato sulla permanenza dentro Ecr che lei presiede – hanno perso la guida dell’altro big d’Europa, la Polonia (ora in mano al popolare Tusk, che detesta Meloni al pari di Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Pedro Sánchez); subito dopo, la maggioranza storica tra popolari, socialisti e liberali ha di fatto rivinto le elezioni europee, impedendo a von der Leyen qualsivoglia postura aperturista verso Meloni. Palazzo Chigi ha visto infine sconfitti in Gran Bretagna l’alleato Rishi Sunak e in Francia la destraccia di Marine Le Pen.

Risultato finale è l’isolamento quasi totale in Ue suo e dell’Italia. Un paese, ricordiamolo, indebitato fino al collo, primo beneficiario dei fondi del Pnrr, sotto procedura d’infrazione per deficit eccessivo e a caccia di un commissario di peso e di un vicepresidente con deleghe di rilievo.

Meloni si è infilata da sola in un cul-de-sac sbagliando tutto quello che poteva sbagliare. Ma, con le spalle al muro, paradossalmente, avrebbe una grande occasione. Quella di trasformarsi da sovranista inaffidabile, da compagna di merende di impresentabili come il premier ungherese e i post franchisti di Vox (che l’hanno pure “tradita” entrando nel nuovo gruppo dei Patrioti d’Europa), in una conservatrice ragionevole, capace di dialogare con i popolari e – su alcuni temi specifici – perfino con la maggioranza Ursula.

Una leader di destra ma più aperta a un confronto con l’Europa non solo farebbe l’interesse nazionale tanto caro a Meloni, ma avrebbe davanti un’autostrada politica, vista la debolezza dell’asse franco-tedesco le cui leadership sono uscite assai malconce dalle elezioni europee.

Sfortunatamente, però, Meloni non coglierà la mela. Troppo forte il richiamo della foresta, troppe le ambiguità dentro Fratelli d’Italia, dove prevale la cultura underdog che ancora domina le scelte politiche della capa.

Troppo forte, infine, il timore di Meloni di scoprirsi sul fianco destro, dove Matteo Salvini – pur perdente all’ultima tornata elettorale – minaccia sfaceli. Ma l’evidenza che Vannacci, neo vicepresidente dei Patrioti, è considerato indegno perfino dal Rassemblement national dovrebbe indicare a Meloni che, per sedersi ai tavoli che contano qualcosa, la via è quella dell’istituzionalizzazione.

Anche i segnali recenti non lasciano ottimisti gli osservatori e i Tajani di turno: qualche settimana fa il governo ha imposto il niet alla dichiarazione Ue sui diritti Lgbtqia+, e pochi giorni fa l’Italia – unico paese insieme all’Ungheria sui 27 membri – ha votato per la prima volta nella storia contro i “top jobs”.

Non solo astenendosi su von der Leyen, ma bocciando il socialista Costa e addirittura la premier estone Kaja Kallas come Alto rappresentante della politica estera. Quest’ultima è una convinta atlantista, vicina alle istanze dell’Ucraina e ricercata dalla polizia russa, con un’agenda del tutto in linea con le posizioni di Meloni.

Una decisione, l’ennesima, che sembra dettata da isteria politica più che da razionalità strategica, e che non lascia affatto ben sperare in ravvedimenti futuri. Ma confidiamo, con il beneficio del dubbio, di essere smentiti. Per il bene del governo, ma soprattutto del paese.

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