- «Penso che lo Stato debba farsi i fatti suoi» sarebbe stato uno slogan perfetto per lo Stato liberale ottocentesco. Quello cosiddetto «minimo», perché meno fa, meglio è. Quello che interviene solo per proteggere da minacce e smottamenti l’ordine sociale costituito.
- Questo «Stato minimo», tra i suoi caratteri, ne aveva due stranamente familiari. Il primo: una tassazione con aliquota fissa. Una flat tax, insomma. Il secondo: una federalizzazione forte, perchè le difficoltà di alcuni non fossero un freno per gli altri. Oggi la chiameremmo autonomia regionale differenziata.
- Poi le cose son cambiate, perchè si è allargata la base sociale rappresentata, e il contenuto della libertà è cambiato: da «lasciami fare» a «mettimi in grado di poter fare». Proprio come chiede la nostra Costituzione.
Della vicenda del contestatore con la bandiera arcobaleno sul palco di Cagliari, a me ha colpito soprattutto un passaggio del commento di Giorgia Meloni su Instagram, quando a un certo punto scrive: «Penso che lo stato debba farsi i fatti suoi».
Sarebbe stato uno slogan perfetto per lo stato liberale ottocentesco, quella forma di organizzazione del potere politico che segna un progresso rispetto allo stato assoluto. Non c’è più, per intenderci, «lo stato sono io» di Luigi XIV – se mai davvero l’avesse detto –, ma c’è uno stato che mette al centro la libertà individuale, intesa come la pretesa che lo stato si astenga da interferire troppo. Che si faccia i fatti suoi, appunto.
Lo stato liberale è quello cosiddetto «minimo», perché meno fa, meglio è; quello del «lasciar fare» – soprattutto al mercato –, mentre il potere pubblico il massimo che fa è vigilare che la notte non mi entrino ladri in casa. E se qualche volta dovrà invece intervenire, sarà solo per proteggere da minacce e smottamenti l’ordine sociale costituito, laddove il sistema fallisce e non riesce a proteggersi da sé.
La vita familiare
Anche nella vita familiare, lo stato interviene nella misura in cui sia necessario da un lato garantire la conservazione e trasmissione della ricchezza, e dall’altro perpetuare la famiglia patriarcale come primo nucleo gerarchico in cui si apprende quel po’ di mentalità reazionaria necessaria alla conservazione dell’ordine borghese. Chiaro, allora, che laddove un problema di trasmissione di ricchezza non c’è, perché non vi è filiazione naturale, e laddove si è al di fuori di una famiglia patriarcale, meglio che lo stato si faccia i fatti suoi. Questo «stato minimo», tra i suoi caratteri, ne ha due che troveremo stranamente familiari. Il primo: nello stato liberale non c’è spazio per la tassazione progressiva – più hai, più contribuisci. Il modello fiscale è invece quello di una tassazione (peraltro preferibilmente indiretta, e non diretta, sul patrimonio) con aliquota fissa. Una flat tax, insomma. Il secondo: lo stato liberale è quasi sempre uno stato che mette l’acceleratore sulla federalizzazione, decentrando quante più competenze possibili (soprattutto quelle in campo economico-sociale), e agevolando autonomie territoriali a diversa intensità, così che le difficoltà di una parte della comunità nazionale non si risolvano in un freno per la ricchezza delle altre. Oggi la chiameremmo autonomia regionale differenziata.
Nella storia c’è stato però quello che gli studiosi chiamano il passaggio dallo stato liberale allo stato sociale. Al centro resta sempre la libertà individuale, ma intesa non più come pretesa all’astensione da parte del potere pubblico, bensì come pretesa all’esercizio di un potere di fatto: non più «lasciami fare», ma «mettimi in grado di poter fare».
Allora non va più bene che lo stato si faccia i fatti suoi; serve che lo stato si adoperi a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. E sì, avete riconosciuto bene: è l’articolo 3 della nostra Costituzione, secondo comma. La Costituzione di uno stato sociale. Da qui deriva l’esigenza di un sistema fiscale realmente progressivo, volto a ridurre le distanze tra le posizioni di ciascuno. Da qui deriva l’attenzione a un federalismo cooperativo, e non competitivo, in cui le esigenze unitarie e di solidarietà siano attentamente garantite. Da qui deriva quello che Stefano Rodotà avrebbe chiamato «il diritto ad avere diritti», anche nel campo personale e familiare. Di uno stato che si faccia i fatti suoi, invece, non sapremo proprio più che farcene, se non relegarlo – insieme a certa destra – al museo delle antichità di cui parlava qualcuno.
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