- Per guidare il paese è necessario controllare il partito maggioritario. È la norma nelle democrazie occidentali. In Italia è accaduto solo in uno sparuto numero di casi che la guida (formale o sostanziale) del partito coincidesse con quella dell’esecutivo.
- La responsabilità degli eletti nei confronti degli elettori, a parità di sistema elettorale, è incentivata e influenzata positivamente allorché il governo sia espressione di una maggioranza parlamentare in qualche misura direttamente coerente con il risultato elettorale.
- Meloni capopartito e capo del governo rimane per ora un’eccezione degli ultimi lustri, ma potrebbe innescarsi una dinamica virtuosa se ad esempio il Pd indicasse nel proprio segretario il candidato automatico per palazzo Chigi.
Denis, ho deciso di candidarmi alla guida del partito». «Intendi correre per la premiership?!» Così il dialogo, plausibile, tra Margaret Thatcher e il marito, al quale annuncia la volontà di scalare il partito conservatore. La Lady di ferro, riportata nella omonima trasposizione cinematografica, sintetizza perfettamente il concetto di governo di partito. Per guidare il paese è necessario controllare il partito maggioritario.
È la norma nelle democrazie occidentali: dalla Spagna al Portogallo, alla Germania, alla Francia, ai paesi scandinavi, ma anche Canada, Stati Uniti e, appunto, Gran Bretagna. In Italia è accaduto solo in uno sparuto numero di casi che le due cariche coincidessero, ossia la guida (formale o sostanziale) del partito e quella dell’esecutivo.
Prima di Meloni
Tra il 1948 e il 1993 solo quattro governi hanno visto alla guida il segretario del partito di affiliazione: Amintore Fanfani (1958-1959) segretario della Democrazia cristiana; Giovanni Spadolini (1981-1982) segretario del Partito repubblicano; Bettino Craxi (1983-1987), segretario del Partito socialista e infine Ciriaco De Mita (1988-1989), ancora alla guida della Dc. Quattro governi su quarantasette, per un totale di meno di sette anni su un totale di quarantacinque anni di storia (il 15 per cento).
La seconda fase del sistema partitico si è aperta nel 1994 con l’arrivo a palazzo Chigi del capo del partito, o meglio del padrone di Forza Italia. Oltre a Silvio Berlusconi sono giunti al governo, in quanto leader del partito di maggioranza, Massimo D’Alema (1998-2000) e Matteo Renzi (2014-2016), sebbene entrambi con manovra parlamentare e non per via elettorale.
Possiamo aggiungere a questa categoria Enrico Letta sebbene fosse vicesegretario del Pd, ma ricopriva comunque una carica apicale, mentre rimane controverso il caso di Giuseppe Conte durante il suo secondo esecutivo (2020-2021), posto che nel primo caso non era certamente capo del M5s.
A essere magnanimi avremmo comunque al massimo sette esecutivi guidati dal capopartito, pari a un significativo 40 per cento sulla totalità dei governi che si sono succeduti in questi ultimi 28 anni, un dato decisamente diverso dalla prima fase della Repubblica.
Tuttavia, dal punto di vista temporale, l’ultimo governo guidato dal vertice di un partito risale al 2014 (Renzi), ovvero al 2013 se consideriamo Letta, o ancora al 2008 con Berlusconi. Significa che per quasi dieci anni si sono avvicendati governi tecnici o guidati da presidenti del Consiglio non espressione della leadership del proprio partito. Se sul piano formale, ovviamente, questo non rappresenta un problema, lo diviene sul versante politico.
La responsabilità degli eletti nei confronti degli elettori, a parità di sistema elettorale, è incentivata e influenzata positivamente allorché il governo sia espressione di una maggioranza parlamentare in qualche misura direttamente coerente con il risultato elettorale.
La centralità dei partiti
La centralità dei partiti all’interno degli esecutivi si evince da vari dati. Anzitutto l’estrazione dei ministri, in larghissima misura di provenienza partitica o comunque nominati dai partiti cui sono ideologicamente prossimi e per i quali hanno spesso svolto funzioni.
Le politiche proposte in campagna elettorale e quelle adottate durante la legislatura sono frutto dell’azione del partito che le elabora anche quando è all’opposizione, in attesa dell’alternanza. Inoltre, contrariamente a quanto sovente ripetuto acriticamente, le leggi approvate sono di origine governativa, e dunque hanno una chiara matrice partitica riconducibile alle forze politiche che sostengono la maggioranza.
Per rimanere al contesto europeo, si pensi che oltre il 70 per cento delle leggi approvate dal parlamento nasce da iniziative governative, per le quali i partiti hanno un ruolo importante di elaborazione e di discussione in assemblea.
L’investitura parlamentare del governo guidato dal presidente Meloni segnala dunque un ritorno alla “normalità” degli esecutivi nelle democrazie europee e a una tendenza, più marcata in Italia dal 1994, di leader di partito/capi del governo.
La lunga parentesi dei governi tecnici, delle selezioni di esponenti politici extra parlamentari e l’ampiezza e la variabilità delle maggioranze anche all’interno della stessa legislatura, pare essersi per ora solo interrotta.
Meloni capopartito e capo del governo rimane per ora un’eccezione degli ultimi lustri, ma potrebbe innescarsi una dinamica virtuosa se ad esempio il Pd indicasse nel proprio segretario il candidato automatico per palazzo Chigi.
Arbitro di coalizione
Per avere un presidente del Consiglio espressione di un partito e capo della stessa organizzazione è necessario che esista il leader, ma anche il partito. Lo sbilanciamento verso le persone ha svuotato i partiti. I quali, pur se criticati, dileggiati, sfiduciati e abbandonati, rimangono centrali nella costruzione e nella gestione del potere.
Anche la democrazia rimane fondamentalmente una democrazia di partiti, senza i quali c’è il rischio del populismo, del rapporto vertice/base senza corpi intermedi e dunque del plebiscitarismo bonapartista.
Il problema, in Italia ma non solo, è che queste organizzazioni faticano a ritrovare legittimità, visione, slancio, capacità di leggere e interpretare la società, di guidarne i cambiamenti.
Sono troppo asserragliati nelle assemblee rappresentative e troppo poco impegnati nella costruzione di strutture abili a dialogare con i propri simpatizzanti, iscritti, ma anche con gli elettori nel complesso.
Il governo Meloni, le sue prime scelte, le proposte, le azioni simboliche e le linee programmatiche, riportano in auge il tema della leadership di governo coincidente con quella di partito. Gli esecutivi nelle democrazie corrono sull’asse governo di partito/partiti di governo.
In Italia abbiamo avuto per molto tempo i primi, sebbene non guidati dal capo partito, ma non i secondi, sempre più imperniati sulla dimensione parlamentare.
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