- L’influencer Giulia Torelli ha scatenato un dibattito che è più serio delle sue superficiali considerazioni da storia Instagram: è giusto che tutti abbiano lo stesso peso in democrazia, o almeno al momento delle elezioni?
- Restringere il suffragio, dunque, è il modo migliore per consolidare le disuguaglianze o aggravarle . Meglio considerare altre soluzioni al problema di una politica poco orientata ai giovani.
- Perché non dare il diritto di voto anche ai minorenni? Greta Thunberg non era degna di partecipare alle elezioni quando aveva 16 anni e lanciava un movimento ambientalista mondiale?
L’influencer Giulia “rockandfiocc” Torelli ha scatenato un dibattito che è più serio delle sue superficiali considerazioni da storia Instagram: è giusto che tutti abbiano lo stesso peso in democrazia, o almeno al momento delle elezioni?
Torelli si lancia in una invettiva contro i “vecchi”. Dice alcune cose sconclusionate, “non sanno quello che stanno facendo”, “non devono fare niente”, “hanno già votato”.
Si possono liquidare queste affermazioni come un delirio, capace comunque di animare una certa discussione social. Oppure si può fare un tentativo di prenderlo sul serio: ci sono alternative migliori rispetto al suffragio universale?
Suffragio non così universale
Intanto in Italia il suffragio non è davvero universale, visto che noi accettiamo senza protestare che siano escluse alcune categorie (per esempio i minorenni, gli studenti fuori sede, persone nate e cresciute in Italia che non hanno la cittadinanza italiana, i carcerati in teoria possono votare ma nella pratica quasi mai ci riescono) mentre altre vengono incluse senza una chiara ragione (italiani residenti all’estero, cioè titolari di una cittadinanza italiana che spesso non esercitano e che deriva soltanto dalle regole locali in materia di trasmissione ereditaria del rapporto col paese di origine degli avi).
Fino alle elezioni 2022 abbiamo tollerato che i giovani trai 18 e i 25 anni avessero una rappresentanza politica dimezzata, visto che potevano votare soltanto alla Camera ma non al Senato, dove i numeri sono ristretti e si decidono davvero le maggioranze. Potevano votare, insomma, ma il loro voto contava meno.
C’è una lunga tradizione di argomenti a favore delle discriminazioni, che oggi ci sembrano abominevoli ma che sono sembrate ragionevoli per decenni o addirittura secoli: i poveri non hanno niente da perdere quindi non dovrebbero essere titolati a votare perché decisioni importanti sulle tasse e la terra devono essere prese soltanto da chi ha proprietà e dunque ne è toccato; le donne partecipano meno alla vita attiva del paese, quindi non devono decidere in campi “da uomini” come l’economia o la politica estera; negli Stati Uniti tuttora si discute del fatto che certi requisiti amministrativi, l’apparenza neutri, sono disegnati per escludere dal voto le minoranze, a cominciare dagli afroamericani.
Abbiamo fatto molti passi avanti nella direzione di un suffragio se non universale almeno molto più esteso, ma ogni tanto qualcuno propone di tornare indietro.
Democrazia di élite
Ciclicamente torna l’idea della “patente” per votare: ci vorrebbe un esame, se non conosci la Costituzione, come fai a scegliere parlamentari e governo? E così via. O magari il voto dovrebbe essere ponderato in base al titolo di studio: possibile che un laureato conti come uno con la quinta elementare?
C’è questo genere di ragionamenti dietro affermazioni come quelle di Carlo Calenda, il leader di Azione che lamenta una «dinamica che porta le persone a votare come se fossero al grande fratello, per chi urla di più, promette di più e realizza di meno, è quello che ha fatto declinare negli ultimi trent’anni l’Italia».
Come evidente, tutte le soluzioni che restringono il suffragio universale finiscono per premiare la parte di popolazione più ricca, istruita, dunque potente, e togliere ogni possibilità di imporre i propri temi e priorità a chi reclama rappresentanza e come unica arma negoziale ha il numero.
Perché l’élite, per definizione, è una minoranza.
Ricordiamoci di Greta
Restringere il suffragio, dunque, è il modo migliore per consolidare le disuguaglianze o aggravarle . Meglio considerare altre soluzioni al problema di una politica poco orientata ai giovani.
Su Domani abbiamo già proposto di estendere il diritto di voto ai minorenni: qualcuno oserebbe sostenere che Greta Thunberg, 16enne al tempo dei suoi primi scioperi climatici del venerdì, non era pronta a partecipare alla vita democratica?
Come ha spiegato l’economista Mattia Rizzolli, c’è un dibattito articolato su questi temi che considera varie ipotesi, tipo attribuire il diritto di voto ai genitori fino a quando il minore non decide di esprimersi da solo. Un genitore, si suppone, avrebbe una prospettiva più di lungo periodo se sa che sta votando in nome e per conto di un bambino che dovrà convivere decenni con le conseguenze delle politiche adottate oggi.
Troppo estremo? Ma almeno perché non dare diritto di voto ai 16enni? Chi è abbastanza maturo da usare un social network, non lo è forse anche per mettere una croce a matita?
Tutto questo dibattito finisce per schiacciare la partecipazione democratica e la democrazia stessa sul momento elettorale, che è cruciale ma non l’unico. Ci sono altri modi per bilanciare il peso delle generazioni.
Per esempio, valutare l’equità generazionale delle leggi: se chi approva una riforma delle pensioni oggi o l’esplorazione di un giacimento di gas non ne pagherà il costo di lungo periodo, può avere un incentivo a decisioni miopi, con benefici futuri limitati e alti costi occulti che si materializzano quando ad altri tocca subirne le conseguenze.
Ovviamente, è facile a dirsi e difficilissimo a farsi: per stimare gli impatti di lungo periodo di decisioni prese oggi servono una lunga serie di ipotesi, modelli complicati, ecc. Avete presente la difficoltà di valutare l’utilità della Tav Torino-Lione?
Il piacere della partecipazione
Un buon punto di partenza sarebbe quello di ricordarsi che le persone non votano su basi razionali. Il voto di ciascuno di noi è importante, ma ha una utilità marginale zero: un singolo elettore non può influenzare l’elezione, ma se troppe persone fanno questo ragionamento la influenzano eccome.
Insomma, la partecipazione democratica si fonda su molle non pienamente razionali: andiamo a votare perché ci piace partecipare e pensiamo perché sia importante, perché è un dovere civico, non dopo una attenta analisi costi benefici di quanta fatica ci costa andare al seggio e se questa è superiore o inferiore all’utilità marginale del nostro voto.
Un primo passo per ribilanciare il rapporto tra generazioni potrebbe essere quello di spiegare agli elettori più anziani che è il momento, su alcune politiche, di essere disinteressati e guardare avanti pensando ai loro nipoti: magari un 80enne non vota volentieri un taglio delle pensioni, ma non avrebbe problemi ad appoggiare misure drastiche di transizione ecologica, visto che non avranno impatto sulla sua vita ma su quella di altri (positivi o negativi).
Forme di militanza antiche come, lo dico da emiliano, lavare i piatti o fare i tortellini alle feste dell’Unità si sono sempre fondate sugli elettori più anziani. C’è qualcosa di male in questo? I partiti novecenteschi riuscivano a mobilitare sia i nonni che i nipoti, quelli attuali non ci provano neanche.
Certo, insultare i “vecchi” per cercare i like dei giovani su Instagram è più facile che costruire nuove forme di partecipazione.
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