- Oltre al ventennale dell’euro, ricorre il trentennale della crisi del Sistema Monetario Europeo che seguì subito la firma del Trattato di Maastricht e che minacciò di far naufragare il progetto di moneta unica.
- La crisi fu dovuta ai dubbi dei mercati sul sostegno che i Parlamenti e i popoli avrebbero dato al disegno dell’euro firmato dai governi. La lezione per il futuro è di non trascurare la cura dei consensi democratici nazionali per i progetti in cantiere di maggior integrazione dell’Unione.
- Insegnamenti per il prossimo futuro vengono anche da altre due cause della crisi del 1992: la differenza fra le politiche monetarie desiderate dai Paesi che si erano impegnati per una moneta unica e le divergenze fra le loro economie reali e le loro competitività.
Quest’anno ricorre il ventennale dell’euro, ma anche il trentennale della crisi del Sistema Monetario Europeo della primavera del 1992. Lo Sme, nato nel 1979, era il sistema di cambi intereuropei fissi (con possibilità di svalutazioni e rivalutazioni concordate fra i Paesi partecipanti) che in un ventennio portò all’unificazione monetaria.
La crisi del 1992 avvenne appena dopo la firma del Trattato di Maastricht che disegnava il cammino verso l’euro. Fu talmente grave da far temere il naufragio del progetto.
La lira e la sterlina dovettero abbandonare lo Sme e fluttuare, si svalutarono violentemente le monete spagnola e portoghese e, nel 2013, la speculazione attaccò anche il franco francese, moneta di un Paese che non aveva debolezze macroeconomiche in termini di inflazione o di debito.
La Bundesbank difese il franco senza esitazioni (cosa che non fece con la lira, e fu un dramma personale di Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia) e la crisi gradualmente si arrestò, salvo per la lira che ricrollò nel 1995 e solo l’anno dopo rientrò nello Sme. Ma l’attacco al franco fu la prova che i mercati non credevano nel progetto dell’euro: anche la Francia, pensavano, sarebbe tornata indisciplinata come prima di mettersi a rincorrere la meta del Trattato.
Come mai i mercati causarono una violenta crisi speculativa proprio due mesi dopo l’accordo dei governi sull’euro? La bozza del Trattato fu festeggiata dai capi di Stato e di governo dell’Unione già alla fine del 1991, con dell’ottimo champagne, sotto le volte delle cantine del castello di Maastricht sui cui muri ci sono ancora le firme di quei capi, oggi tutti passati a miglior vita. Subito dopo lo champagne, il calice amaro di una crisi violentissima. Quali furono le ragioni?
Furono tre e per ciascuna c’è un insegnamento per l’euro di domani, perché non torni in pericolo di vita ma si irrobustisca e diffonda nel mondo.
La tenuta democratica del Trattato
Prima ragione: i dubbi sulla tenuta politico-democratica del Trattato. Era stato firmato dai governi ma doveva essere approvato dai parlamenti nazionali, in alcuni casi da referendum. I mercati sospettarono che l’europeismo dei governi fosse andato oltre quello dei paesi.
L’allarme fu il prevalere dei “no” nel referendum danese. Ma soprattutto il risicatissimo successo di quello francese, dopo un dibattito che parve disinteressato all’oggetto del Trattato e tutto teso a strumentalizzare l’occasione per bisticci franco-francesi. I mercati si chiesero: come scommettere sul successo dell’unificazione monetaria se si comportava così un pilastro dell’eurozona come la Francia?
Dopodiché, in meno di un paio d’anni, le ratifiche avvennero, anche da parte della Danimarca, poco notate dai media, e d’improvviso ci si trovò col Trattato in vigore. Ma il tema del consenso democratico restò sullo sfondo ed è ancor oggi cruciale.
Abbiamo di fronte, già quest’anno, passi essenziali per l’integrazione dell’UE e l’irrobustimento dell’euro. Passi interconnessi che, forzando il parallelo con Maastricht, formano una sorta di nuovo progetto europeo, nato da una nuova consapevolezza dei problemi maturata durante la pandemia e testimoniata, soprattutto, dal varo di Next Generation Eu (Ngeu).
Il “nuovo progetto” comprende la riforma del Patto di Stabilità, la reintroduzione della disciplina degli aiuti di Stato, la gestione dell’enorme debito pubblico monetizzato dalla Bce e che ancora si accumula viziosamente nell’attivo del suo bilancio, l’unione bancaria, lo sviluppo del mercato globale degli eurobond, la piena realizzazione e, magari, il rinnovo e prolungamento di Ngeu, schemi di politiche industriali trasformative comunitarie, nuovi ruoli per il bilancio comunitario, ambizioni di politica estera e di difesa comuni, lo sviluppo di un pilastro di welfare europeo, e altro ancora.
Tutto ciò non deve essere deciso sorvolando le democrazie nazionali, con accordi diplomatici intergovernativi, senza vera attenzione, consapevolezza e consenso delle popolazioni e dei parlamenti. Anche i profili tecnici di questi passi vanno spiegati con la pazienza e la convinzione necessarie a superare le strumentalizzazioni populiste. Senza conferme democratiche gli accordi risulterebbero fragili, poco credibili per i mercati.
Oggi prevale l’idea di far programmi di evoluzione dell’Ue cercando soluzioni, a volte giuridicamente acrobatiche, che non implichino modifiche dei Trattati.
È comprensibile voler evitare le lunghe e incerte procedure nazionali di ratifica di quelle modifiche. Ma integrare l’Unione con esplicite variazioni dei Trattati, ratificate dai Paesi, ha il vantaggio di coinvolgerli direttamente e, anche a costo di affrontare dibatti controversi, rafforzare il fondamento democratico delle innovazioni che si introducono.
Con o senza modifiche ai Trattati, i governi dovrebbero comunque impostare, con trasparenza e informazioni chiare e corrette sui vantaggi collettivi europei che perseguono, la ricerca di un robusto consenso europeista nei loro popoli, partiti, parlamenti, per gli approfondimenti che vogliono apportare all’integrazione dell’Unione.
In Italia dovremmo prepararci a farlo senza equivoci per la riforma del Patto di stabilità, per riattivare la disciplina degli aiuti di Stato, per completare l’unione bancaria, per ampliare il bilancio comunitario, ed altro ancora. Spiegando bene che non si tratta di difendere l’interesse nazionale dai partner comunitari, ma l’interesse dell’Unione nel suo complesso.
Divergenze monetarie e svolte fiscali
La seconda causa della crisi del 1992 fu l’emergere improvviso del fatto che per la Germania la politica monetaria ottimale non era la stessa che per altri Paesi e in particolare per il potente co-leader europeo, la Francia.
La Germania la voleva meno espansiva, con tassi più alti. L’unificazione tedesca richiedeva grandi spese pubbliche il cui impatto inflattivo andava compensato con politiche monetarie più rigide e tassi che attirassero capitali dall’estero. La Francia, come l’Italia, preferiva stimoli monetari per una congiuntura debole. Il litigio fu esplicito e spinse i mercati a speculare contro il successo del cammino verso la moneta unica.
Poi le cose migliorarono, la convergenza dei tassi divenne possibile, la Germania vide diversamente il problema della sua unificazione. Ma l’episodio ci ricorda che anche oggi la Germania pare muoversi, pur con qualche esitazione, verso atteggiamenti più aperti in tema di politiche di bilancio.
Possibilista su un Patto di stabilità meno rigorista, ha in programma grandi investimenti pubblici, sembra credere nel futuro di Ngeu e persino, a tratti, in un’evoluzione del bilancio comunitario. In cambio, anche oggi vorrebbe meno espansione monetaria, col graduale arresto degli acquisti di titoli di Stato della Bce e un avvio di rialzo dei tassi.
Se non le andiamo incontro, perdiamo la sua disponibilità alle innovazioni di bilancio e rischiamo uno scontro monetario destabilizzante, soprattutto per noi.
Le convergenze reali
La terza causa della crisi del 1992 fu la carenza di convergenza reale: inflazione, disavanzi pubblici e crescita rimanevano molto diversi fra i Paesi candidati all’euro e i mercati non credevano si potesse giungere a mantenere i cambi tanto fissi da dar luogo a una sola moneta.
Questo problema fu superato poco e male e rimase in parte anche dopo l’unificazione: le differenze furono mascherate, soffocate, trascurate, temporaneamente ridotte, ma rimasero.
Finirono per causare anche la crisi dell’eurozona del 2010-12 dopo che per anni, sparito il rischio di cambio, i Paesi più macro-economicamente disciplinati e competitivi finanziarono imprudentemente la cosiddetta periferia dell’eurozona che non usò bene quegli abbondanti afflussi di fondi, accrebbe i debiti e alimentò dubbi sulla loro sostenibilità.
Le lezioni per il futuro sono ovvie ma sfidanti. Cruciale è usare bene i fondi di Ngeu, concepiti proprio per rilanciare la convergenza, aiutare i Paesi più in difficoltà e dare a tutti obiettivi strutturali per le nuove sfide globali. Urgono le riforme strutturali per rilanciare e far convergere le produttività dei Paesi, richieste anche dai programmi di Ngeu.
Sono indispensabili anche le riforme comunitarie che facilitano la convergenza reale, come il completamento dell’unione monetaria, la centralizzazione di alcune entrate e uscite dei bilanci pubblici, il rilancio della centralità del mercato unico. Queste non sono responsabilità dei singoli paesi. Ma come farle se essi preferiscono dimenticarle?
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