- Non molti anni fa Giuseppe Fioroni, per il ministero che avrebbe diretto, si era subito preoccupato di affiancare alla parola “istruzione” il termine “pubblica”.
- Inserendo la parola “merito” nella denominazione, si vogliono certamente inviare messaggi che sarebbe stato più trasparente dichiarare ad alta voce, piuttosto che sottendere così ambiguamente.
- Leggo questa nuova dicitura e mi chiedo: chi non ha merito e non porta a casa risultati soddisfacenti che posto ricoprirebbe oltre a quello di rallentare o impedire la corsa dei più meritevoli? Ci sarebbe ancora spazio, in questa idea di scuola, per la fragilità e la povertà? O diventerebbe un agone dove si riconoscono ed educano solo i meritevoli proprio come nelle competizioni concorrenziali?
Non molti anni fa Giuseppe Fioroni, per il ministero che avrebbe diretto, si era subito preoccupato di affiancare alla parola “istruzione” il termine “pubblica”. Come sempre in questi casi, non era una questione lessicale, ma si voleva portare alla luce un messaggio preciso: la scuola è di tutti e quella statale resta la spina dorsale del sistema di educazione e di formazione del paese.
Non è questo il momento di riassumere come sono effettivamente andate le cose, ma è evidente che il ministero di viale Trastevere, da più di vent’anni, è stato guidato da personalità scarsamente capaci di innovare, riformare e amministrare se la gestione che ricordiamo meglio è quella di Maria Stella Gelmini, coi suoi tagli indiscriminati di cui ancora oggi scuola e università portano i segni.
Ora il governo Meloni farà dirigere questo ministero a Giuseppe Valditara, che lo ha ribattezzato ministero dell’Istruzione e del Merito. È la prima volta che si adopera una simile dicitura, e anche in questo caso non si tratta di una mera questione lessicale.
Inserendo la parola “merito” nella denominazione, si vogliono certamente inviare messaggi che sarebbe stato più trasparente dichiarare ad alta voce, piuttosto che sottendere così ambiguamente. Sentiamo parlare di mancanza di merito in ogni ambito lavorativo e sociale, con un tasso di retorica e paternalismo spesso stucchevole.
Nella realtà il vocabolo richiama prima di tutto frustrazioni che sbocciano durante la formazione scolastica e universitaria e che proseguono durante quella lavorativa, più che mai complicata da avviare, sia per la difficoltà di trovare un posto sicuro, che per i contratti proposti, che per una mancanza di riconoscimento e valorizzazione del proprio percorso formativo.
Ma che valore assume “merito” di fianco a “istruzione”? È più immediato comprendere che il nuovo ministero della Famiglia e della Natalità, diretto da Eugenia Roccella, si chiami così perché la famiglia che interessa a questo governo è quella tradizionale e procreatrice, in barba a tutte le altre forme di convivenza, di legame e di affettività che si sono sviluppate e diffuse ormai da tempo e che la politica preferisce discriminare che normare.
Ed è più probabile che il ministero del Sud e del Mare, diretto da Sebastiano Musumeci, si chiami così perché la questione dei migranti possa più agevolmente essere rimessa al centro del dibattito nei soliti modi a cui la destra, Salvini in testa, ci ha abituato in questi anni. Passando sopra al fatto che l’Italia è bagnata dal mare anche a nord.
A chi è diretto il “merito”
Innanzitutto: il merito abbinato alla parola istruzione a chi si riferisce? Ai docenti, agli studenti, ai dirigenti scolastici, al ministro stesso che magari lo metterà al centro di una sua prossima riforma? O serve solo a soddisfare tutti quelli che accusano la scuola di essere poco aperta al merito?
Se lo si sottolinea al punto da inserirlo nell’intestazione è perché si crede che in quel ministero manchi più che altrove, altrimenti lo si darebbe per scontato, immaginando che al governo stia a cuore averne tanto nei trasporti quanto nell’economia, tanto nell’istruzione quanto nelle relazioni con l’estero o nell’agricoltura. La parola, dunque, sottintende una critica alla pubblica amministrazione, scolastica compresa, che si inserisce in quel filone aggressivo inaugurato dall’ex ministro berlusconiano Renato Brunetta?
Se il merito invece lo caliamo tra i protagonisti della vita scolastica – gli studenti – acquista immediatamente un’ambiguità che non è eccessivo definire pericolosa. Prima di tutto perché l’istruzione non è un merito, ma un diritto e, prima ancora, un obbligo.
Se la si destina in via preferenziale agli alunni che hanno voti e profitto più elevati di altri, l’istruzione diventa immediatamente discriminante perché l’insuccesso scolastico non è un demerito o una colpa, ma molto spesso il frutto di molteplici fattori, comprese situazioni familiari, condizioni economiche, sociali e personali più precarie.
Se le cose stessero così, dunque, emergerebbe un’idea di istruzione ancora più imprenditoriale e aziendale, dove il merito è il successo di chi ce l’ha fatta, non di una comunità democratica che cammina assieme, né di un governo volto a rimuovere gli ostacoli di cui parla l’articolo 3 della Costituzione.
Leggo questa nuova dicitura e mi chiedo: chi non ha merito e non porta a casa risultati soddisfacenti che posto ricoprirebbe oltre a quello di rallentare o impedire la corsa dei più meritevoli? Ci sarebbe ancora spazio, in questa idea di scuola, per la fragilità e la povertà? O diventerebbe un agone dove si riconoscono ed educano solo i meritevoli proprio come nelle competizioni concorrenziali?
La missione culturale
In attesa che il ministro spieghi meglio cosa intende con questa dicitura e da quale urgenza nasce questa nuova intestazione, aggiungo che se la parola, invece, si riferisse a lui, il suo merito dovrebbe essere prima di tutto quello di andare a prendere casa per casa chi non va a scuola, chi la abbandona, chi non ha i mezzi per affrontarla nel migliore dei modi, combattendo così il problema enorme e continuamente sottovalutato della dispersione scolastica e del basso numero di laureati.
Il merito starebbe, cioè, in una missione culturale che vada al di là delle competenze e si diriga subito dove persistono fragilità e povertà, periferie e ghetti. Questo creerebbe i presupposti affinché tutti siano messi in condizione di poter essere meritevoli, visto che il merito si può misurare solo se partiamo da condizioni identiche e da pari opportunità. Se, ad esempio, non ho i soldi per iscrivermi a una specifica facoltà, o se le borse di studio sono insufficienti a soddisfare il numero di richieste (e siamo agli ultimi posti in Europa per questi investimenti), il mio merito non potrà mai emergere ma brillerà soltanto quello di chi ha potuto intraprendere il percorso.
Nella nuova veste moderata indossata dal presidente del Consiglio, volta a rassicurare una parte ampia di popolazione e tutti coloro che la osservano da lontano, una dicitura simile non appare affatto moderata perché, sotto l’ambiguità del merito, presenta l’istruzione come una selezione darwiniana in cui va avanti solo chi ha mezzi e risorse sufficienti.
E del resto dei bambini e dei ragazzi cosa ne facciamo? Classi differenziali? Studenti di seconda fascia? A tale proposito viene da chiedere: quanto verrà investito in termini di sostegno, di borse di studio, di compensazione per chi al momento non riesce a far emergere il proprio merito e il proprio talento?
E a proposito di parole: come sarebbe bello immaginare un giorno di fianco alla parola “istruzione” non la parola “merito” ma “inclusione”. Ministero dell’Istruzione e dell’Inclusione. Con la lettera maiuscola.
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