Ai morti si deve giustizia. Sarebbe il caso di dare un segnale (un sacro dovere delle istituzioni) a tutte quelle famiglie dimenticate dalla storia che scontano ancora il trauma del sangue dei loro figli, perché giustizia non l’hanno mai avuta
È un errore utilizzare la memoria di Ramelli come una memoria di parte» perché un caso come il suo andrebbe «elevato a monito di ogni violenza». Ha ragione il presidente del Senato, Ignazio La Russa, quando dice che al ricordo dei morti si deve rispetto e che il senso di umana giustizia dovrebbe farsi ricordo collettivo.
Sergio Ramelli era uno studente di 19 anni, iscritto al Fronte della gioventù, ucciso a Milano nel 1975 da militanti di Avanguardia operaia. A condannarlo, un tema in cui aveva espresso il suo biasimo verso le Brigate rosse. I suoi assassini hanno girato per anni indisturbati, per poi essere inchiodati alle loro responsabilità. Ma poi i loro nomi sono venuti fuori durante un processo a Bergamo ai pentiti di Prima linea. E nel 1985 l’indagine condotta dal giudice Salvini portò all’arresto di otto studenti iscritti alla facoltà di medicina, militanti del servizio d’ordine di Avanguardia operaia, incastrati per omicidio volontario. Hanno vissuto per anni coperti da un muro di omertà, perché tutti sapevano che erano stati loro a massacrare Ramelli con chiavi inglesi e spranghe e a lasciare il corpo davanti al portone di casa. La condanna non ha di certo cambiato la vita ad Anita Pozzoli, la madre di Sergio, che aveva vissuto i 47 giorni di coma del figlio. «Io non li voglio nemmeno vedere. Ora che si sanno i loro nomi, io non li voglio nemmeno sapere. Non ho risentimento, non li ho mai odiati. Ero talmente piena del mio dolore che non pensavo fosse possibile odiare». Così aveva dichiarato dopo il processo.
E chissà se i colpevoli di questo delitto, che si erano perfettamente inseriti nella società, diventando medici rispettabili, avevano mai provato rimorso guardando le foto (diffuse da tutti i giornali) di Sergio su un letto d’ospedale, col sondino al naso e i capelli rasati dopo l’intervento chirurgico durato cinque ore, nel tentativo di ridurre i danni cerebrali causati dai colpi.
Nel corso di un’intervista rilasciata alla Rai nel 1987, Giuseppe Ferrari Bravo, uno degli assassini, avrebbe poi avuto un sussulto di coscienza. «In quel momento pensai che una cosa erano i fascisti idealizzati come simbolo e un’altra cosa era il ragazzo che avevo di fronte, che era praticamente un mio coetaneo». Alla fine di questa storia, il messaggio è arrivato: in una democrazia non può avere diritto di cittadinanza il far west nelle strade, con giovani di opposte fazioni che si sprangano e si ammazzano a vicenda.
La giustizia che si deve a tutti
Ma, al di là del mancato pentimento dei carnefici, ai morti si deve giustizia. E allora sarebbe il caso di dare un segnale (questo sì, sacro dovere delle istituzioni) a tutte quelle famiglie dimenticate dalla storia che scontano ancora il trauma del sangue dei loro figli, perché giustizia non l’hanno mai avuta. Danila Tinelli, la madre di Fausto Tinelli, ha atteso per anni che la magistratura trovasse gli assassini di suo figlio, ammazzato sotto casa insieme al suo miglior amico Lorenzo Iannuzzi (detto Iaio), un sabato sera qualunque a Milano, il 18 marzo 1978 (due giorni dopo il sequestro di Via Fani). È stata Danila a battersi per anni contro depistaggi, occultamenti di prove e palesi menzogne. Perché Fausto e Iaio sono due morti ammazzati senza assassini. Uccisi da un commando neofascista appositamente venuto da Roma, che li fredda sul selciato sparando alla gola un caricatore intero. E Danila vede tutto dalla finestra. Lei, che in quel momento è in casa con un altro figlio, un bambino di appena un anno che crescerà con una madre in lutto.
Secondo la magistratura, il movente è un regolamento di conti fra opposti estremismi: le vittime, militanti del centro sociale Leoncavallo, stavano indagando su un traffico di eroina e sugli intrecci tra malavita ed eversione nera al quartiere Casoretto di Milano.
Ma la verità è un’altra: la cameretta di Fausto affacciava proprio di fronte a un appartamento, che i carabinieri scopriranno essere il covo delle Br di via Montenevoso, nei giorni del sequestro Moro. E il ragazzo ha di certo visto qualcosa che non doveva vedere. Oggi l’impunità su questa storia suona come una sconfitta per lo stato, che si è arreso all’omertà degli indagati, terroristi neofascisti, già noti e arrestati per fatti criminosi. Per condannarli servono prove, che però mancano.
E infatti il processo, con le indagini riaperte più volte dalla procura di Milano, si è chiuso nel 2000 con l’archiviazione del caso. I colpevoli del crimine si conoscono, ma non si hanno prove sufficienti per poterli incastrare. E così gli assassini di Fausto e Iaio circolano ancora a piede libero. Però se è vero, come dice il presidente La Russa, che i morti servono da monito alle generazioni future, forse è arrivato il momento di rendere loro giustizia, come solo le democrazie sanno fare. Condannando le colpe, per ristabilire la verità.
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