- Proprio i due grandi difetti del Pci – sentirsi migliori ed essere moderati –, che certamente hanno avuto un peso determinante nella vicenda politica e ancor più nella crisi del Partito, sono esattamente i due motivi per cui a sedici anni decisi di iscrivermi.
- Mi piaceva sentirmi “dalla parte giusta” della storia e militare in un partito la cui Direzione nazionale – caso unico al mondo – aveva, al piano terra, una libreria; e detestavo l’estremismo, le urla, la violenza di piazza, l’intolleranza.
- Del resto, ero un borghese. Il Pci è stato prima di tutto e fondamentalmente un’esperienza formativa eccezionale.
È molto difficile, se non impossibile, spiegare il Pci a chi non l’ha frequentato, e ancor meno a chi non ha vissuto quegli anni: ci vorrebbe forse un grande scrittore, assai più che uno storico o un politologo, per raccontarne la storia sentimentale, che per molti aspetti mi appare più interessante, anche perché pressoché unica, della sua storia politica.
O meglio: non si riesce a comprendere fino in fondo la storia politica del Pci, non si comprende neppure come abbia fatto a sopravvivere, né tantomeno a conquistare un terzo degli elettori italiani, se non si prova anche, e soprattutto, a cogliere la specificità emotiva e culturale, umana e psicologica di un’esperienza che non ha, credo, paragoni nella politica contemporanea e che appare senz’altro irripetibile nell’Italia di oggi.
La bibliografia sul Partito – lo si è sempre chiamato così, con la maiuscola e senza aggettivi – è immensa, e anche questa è una prova della sua unicità (e forse, anche, della nostra nostalgia): Il nostro Pci aggiunge un frammento alla sua storia sentimentale, mostrando le tessere e i volantini, le medaglie e i manifesti, gli opuscoli e le spille e le coccarde che l’hanno accompagnato per settant’anni.
Da molto tempo raccolgo questi coriandoli colorati di un mondo che non c’è più, e che avrebbe poco senso tanto rimpiangere quanto rinnegare: oggi sono lieto di poterli offrire a chi c’era, e a chi non ha fatto in tempo ad esserci.
Il Pci era prima di tutto, nella soggettività di chi ne faceva parte come nel panorama politico e culturale del Paese, una grande comunità autosufficiente. E poteva essere pienamente autosufficiente, senza per questo diventare una setta, proprio perché era grande.
Il Pci negli anni Settanta aveva le sue cellule praticamente in ogni fabbrica, ufficio, scuola, università, e le sezioni in ogni quartiere; amministrava centinaia di Comuni e quasi tutti i capoluoghi; pubblicava un quotidiano che vendeva centinaia di migliaia di copie e un settimanale culturale che ne vendeva decine di migliaia; disponeva di un network di radio locali e, poi, di televisioni; aveva una sua casa editrice, una catena di librerie, quattro centri studi, numerose riviste accademiche, una scuola quadri che formava ogni anno migliaia di dirigenti di base.
I cerchi concentrici
Nel mondo che ruotava intorno al Partito – un mondo ancora più vasto, che via via si allargava in cerchi concentrici sempre più ampi – c’era l’Udi per le donne e c’erano i Pionieri per i ragazzi, c’era il sistema della cooperazione, insieme modello economico alternativo e forziere del Partito, c’erano l’Alleanza Nazionale Contadini e la Confesercenti, c’era l’Arci per il divertimento e c’era l’Uisp per lo sport e c’era l’Unipol per assicurare l’automobile o la casa, e naturalmente c’era la Cgil, il gigante con cinque milioni di iscritti che custodiva per dir così il cuore del movimento operaio.
Il Partito mi sembrava allora, e in effetti mi sembra anche oggi, prima di tutto una comunità affettiva: una grande famiglia capace di badare a se stessa, rassicurante e protettiva, con una forte consapevolezza di sé, che discute anche aspramente, ma con la maturità necessaria a trovare sempre un’intesa, che forma ed educa i propri membri, li promuove secondo criteri sostanzialmente meritocratici, coltiva ideali di giustizia sociale e di libertà condivisibili da una larga maggioranza, amministra con rigore e prudenza ma sa riempire le piazze quando è necessario, combatte battaglie anche molto dure ma apprezza l’ordine e lavora sempre per la ricomposizione del conflitto.
C’è in questa descrizione, non so quanto condivisibile, l’eco di quella pretesa superiorità morale e politica dei comunisti, della tanto giustamente rimproverata “diversità” berlingueriana; e c’è anche la sostanziale moderazione del Pci, il suo esser stato rivoluzionario e comunista soltanto nell’iconografia e nel lessico, e prudentemente riformista, qualche volta al limite dell’immobilismo, nella prassi. Eppure proprio i due grandi difetti del Pci – sentirsi migliori ed essere moderati –, che certamente hanno avuto un peso determinante nella vicenda politica e ancor più nella crisi del Partito, sono esattamente i due motivi per cui a sedici anni decisi di iscrivermi.
Mi piaceva sentirmi “dalla parte giusta” della storia e militare in un partito la cui Direzione nazionale – caso unico al mondo – aveva, al piano terra, una libreria; e detestavo l’estremismo, le urla, la violenza di piazza, l’intolleranza. Del resto, ero un borghese.
Sebbene possa essere banale o retorico affermarlo, il Pci è stato prima di tutto e fondamentalmente un’esperienza formativa eccezionale.
Rivoluzionari senza rivoluzione
Nel Partito ho scoperto e ho conosciuto gli italiani. Sono fuoriuscito dal mio microcosmo borghese e ho cominciato a frequentare persone, luoghi e situazioni reali: la classe operaia, i quartieri popolari, l’immigrazione meridionale.
Ho imparato a preparare una relazione, a scrivere un volantino e a ciclostilarlo, a parlare in un’assemblea, a fare un comizio al mercato, a farmi capire dagli altri.
Ho studiato in sezione la Costituzione e la storia contemporanea, che a scuola nessuno allora s’incaricava di insegnare. Ho imparato il rispetto per il Parlamento, per le istituzioni, per le forme del confronto democratico.
Ho conosciuto e praticato le virtù del compromesso, del dialogo, della mediazione, perché ci veniva insegnato che le lotte devono sempre sfociare in un accordo, anche minimo, poiché un piccolo risultato è meglio di nessun risultato, e i risultati sono la misura della politica.Sebbene non sempre abbia tenuto fede a questi insegnamenti, dal PCI ho ricevuto una sorta di imprinting indelebile, peraltro espressione di una cultura politica comune al sistema democratico dei partiti: tanto che mi capita a volte di provare una consonanza più profonda, persino più intima, con un vecchio democristiano o persino con un ex missino, piuttosto che con un giovane attivista della sinistra dei giorni nostri.
Ci pensavamo un’élite rivoluzionaria, sebbene la rivoluzione fosse stata da tempo archiviata, e credevamo di essere i migliori, mentre in realtà fra di noi, com’è ovvio, c’era di tutto: ignoranti e colti, brillanti e ottusi, generosi e meschini.
E tuttavia proprio questa mescolanza di virtù e di vizi, proprio questa normalità cui pensavamo presuntuosamente di essere estranei ha saputo fare del Pci un grande partito, un partito-mondo, uno dei più grandi partiti di massa della storia politica europea.
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