Vista la tensione che si respira fra le strade di Tel Aviv e le continue manifestazioni in tutto il paese, stupisce il silenzio sui media nostrani. Eppure quanto accade qui è più vicino di quanto si pensi
Ero anch’io, sul finire della scorsa settimana, fra i 190mila per le strade di Tel Aviv a protestare contro l’annunciata approvazione da parte del governo Netanyahu della prima parte della sua contestata riforma giudiziaria. Ieri pomeriggio è arrivato il voto alla Knesset, giusto in tempo per la festività di Tishà BeAv, che quest’anno cade fra domani e giovedì.
È la data in cui si ricordano numerosi momenti luttuosi del popolo ebraico: la caduta del primo e del secondo tempio di Gerusalemme, la sconfitta degli insorti guidati da Bar Kochbà contro l’occupazione romana, la distruzione di Gerusalemme e l’inizio della diaspora ebraica, la cacciata dalla Spagna del 1492, la nascita del falso messia Shabbatay Tzevi che divise le comunità ebraiche di tutto il mondo, la deportazione degli ebrei a Treblinka.
Giorno definito dalla tradizione il «più triste della storia ebraica». Speriamo che a queste date tragiche non se ne debba aggiungere un’altra, visto il clima di tensione che si respira nel paese.
Un brutto clima
Il tutto è accompagnato da una serie di attacchi al limite del criminale nei confronti della presidente della Corte suprema e della procuratrice generale dello Stato che si sono opposte alla riforma.
Oltre che da dichiarazioni senza precedenti contro le élite tradizionali del paese, tra cui spicca quella dell’attivista del Likud, il partito del premier Netanyahu, Itzik Zarka che, da sefardita (la componente ebraica da sempre ritenuta discriminata in Israele), in un comizio ha detto di aver ben compreso perché Hitler abbia fatto fuori sei milioni di askhenaziti. Aggiungendo che, anzi, ne avrebbe dovuti ammazzare di più.
Neanche il primo ministro ha potuto fare a meno di chiederne l’allontanamento dal movimento.
Il silenzio
In tutto questo clima a dir poco incandescente (e non solo per le temperature torride) in cui si sommano manifestazioni, marce e presìdi stupisce e rattrista il silenzio, ancor più in questo provinciale paese che è l’Italia, su quanto stia accadendo da queste parti. Notizie ridotte al lumicino, quando va bene.
Tanto, si sa, Israele occupa la Palestina, disattende le risoluzioni Onu e via con questi toni da post ’67 che mischiano capra e cavoli. Come se i primi a risentire di una deriva antidemocratica del paese non sarebbero i poveri palestinesi, la cui colpa più grave è essersi attorniati di pseudo amici disposti a consegnarli alle peggiori condizioni pur di affermare quanto sia cattivo questo Stato ebraico, che, unico al mondo, dovrebbe farsi cancellare pur di dimostrare la propria bontà all’occidente.
La crisi della democrazia
Insomma, Israele è un corpo estraneo, non è mai stato democratico e la sua storia non ci riguarda. Del resto, si diceva così anche dell’Ungheria di Viktor Orbán.
Io stesso ebbi un dialogo con Angelo Panebianco in cui mi spiegava come fosse una democrazia giovane, immatura e che da noi quelle derive non sarebbero potute accadere.
Poi è venuto il turno della Polonia, stessa storia: sono paesi che hanno subìto il comunismo fino a ieri. Poi della Turchia, ma, si sa, a parte qualche città lì non c’è mai stata coscienza democratica.
E anche qui mi vengono in mente le conversazioni col compianto Gabriel Mandel, che, con la spilla di Ataturk sul petto, mi spiegava quanto la reintroduzione del velo da parte del neo eletto Erdogan rappresentasse una maturazione della democrazia turca, talmente solida da non dover più temere la componente religiosa. Visto oggi, tutto assume un significato diverso.
Già lì dovevamo accorgerci di quanto stava comparendo all’orizzonte. Certo, un processo viene attaccato dove il ventre è molle, ma quello è solo l’inizio. Quanto accade in Israele, invece, è vicinissimo a noi e riguarda una crisi del modello democratico a tutte le latitudini. Qui si aspetta solo che Biden venga sconfitto alle elezioni da Trump.
A quel punto, come si dice, la frittata sarà fatta. Se cade Israele sarà un’altra tappa del tramonto della democrazia, che, va ricordato, nasce dalla storia e nella storia potrà tornare. Piuttosto che smarcarsi dai propri, incrostati pregiudizi, più agevole far finta che sia tutto lontano. Così, chiusi ognuno nel proprio particulare, saremo tutti più deboli in questa sfida che, sempre più, appare epocale.
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