Tutto è diventato troppo persino per il titanismo ottuso di Benjamin Netanyahu. Il ritiro delle truppe israeliane da Gaza Sud è una concessione a pressioni diventate per lui insopportabili. È tanto? È poco? È tanto per una popolazione civile palestinese stremata, letteralmente alla fame oltre che in costante pericolo di vita.

È poco per le prospettive della guerra perché la decisione è stata accompagnata da una serie di precisazioni che tengono a sottolineare come si tratti di una strategia precisa e non siamo affatto all'ultimo atto.

La spina nel fianco

Esattamente a sei mesi dall'attacco di Hamas del 7 ottobre il confitto entra, dice Gerusalemme, nella terza fase dei raid mirati e limitati, senza escludere un ritorno dei soldati a Khan Yunis, operazioni nel centro della Striscia e ovviamente un attacco a Rafah, al confine con l'Egitto dove si trovano asserragliati gli ultimi battaglioni di Hamas. E tuttavia Gaza almeno respira un poco, il segno di buona volontà potrebbe persino preludere al rilancio di una trattativa sugli ostaggi, all'incirca 130, ancora nella mani dei terroristi.

Proprio gli ostaggi sono la principale spina nel fianco interno del premier, quella più dolorosa e in grado di erodere ancora di più un consenso che è andato molto scemando e che lo obbligherebbe all'irrilevanza nel caso ci fossero elezioni da molti invocate a partire da un membro del gabinetto di guerra come l'ex generale Binyamin Gantz.

I centomila in corteo sabato a Tel Aviv, segno di una vivacità democratica comunque, hanno reclamato il voto e rilanciato l'accusa più pesante per Netanyahu, quella di avere le mani lorde del sangue dei suoi concittadini rapiti e per i quali non si è trovata una soluzione negoziale.

L’isolamento

Le piazze erano già in tumulto anche prima dell'attacco terroristico subito per il tentativo dell'esecutivo di assoggettare il sistema giudiziario e per l'insofferenza verso il leader più longevo dello storia di Israele, obbligato, in questa sua fase crepuscolare, ad alleanze imbarazzanti con partiti di estrema destra esplicitamente razzisti pur di rimanere al potere e incidere dall'alto della sua carica sui processi per corruzione in cui è imputato.

Le sofferenze interne sono aggravate dal sostanziale isolamento internazionale del paese, causato da scelte sciagurate sui metodi della reazione militare alla carneficina del 7 ottobre. La goccia che ha fatto traboccare il vaso dei rapporti già precari con gli Stati Uniti è stata l'uccisione dei sette operatori umanitari di Wolrd central kitchen commentata da Netanyahu con una frase di sciagurato fatalismo: «Certe cose in guerra possono succedere».

Il ritiro

Non bastasse, il raid contro il consolato iraniano a Damasco di cui è rimasto vittima tra l'altro il generale dei pasdaran, Mohammad Reza Zahedi, ha irritato ancora di più Washington perché può preludere a un allargamento del conflitto in un periodo complicato anche dall'altro conflitto in Ucraina.

Nonostante il tentativo di edulcorare il senso di una telefonata in realtà burrascosa tra Joe Biden e Netanyahu, i rapporti tra i due paesi alleati sono ai minimi storici. I guasti che sta provocando nell'area più infiammata del mondo l'ingestibile premier dello stato ebraico, riluttante a qualunque soluzione di buonsenso pur di protrarre una crisi per lui garanzia di permanenza al potere, hanno superato il limite della sopportabilità.

Il ritiro dal sud di Gaza è probabilmente il pegno pagato alla Casa Bianca per evitare una rottura definitiva dando un segno di resipiscenza. Un allentamento della tensione almeno su una delle tante partite che si stanno giocando e mentre nuvole nere di scorgono all'orizzonte.

Teheran ha riconfermato la rappresaglia per quanto subito in Siria e potrebbe colpire entro domani, fine del Ramadan, qualche rappresentanza diplomatica, lo stesso territorio israeliano, o bersagli statunitensi. Scenari comunque da incubo si disegnano mentre i soldati con la stessa di David lasciano la fascia sud della Striscia di Gaza consegnandoci almeno un'immagine di speranza.

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