La dottrina israeliana dell'attacco preventivo, peraltro non nuova, non è tuttavia mai stata attuata in modo così continuo e massiccio come negli ultimi mesi. È almeno da aprile, con l'attacco al consolato iraniano di Damasco, che si ripete con tempi sempre più ravvicinati e riguarda, oltre che l'Iran anche la Siria e il Libano, praticamente tutto l'asse sciita del Medi Oriente.

Persino la guerra di Gaza, iniziata come risposta al feroce attacco di Hamas del 7 ottobre, si è lentamente trasformata in una strategia di annientamento totale della formazione jihadista (che ha comportato però l'uccisione di almeno trentamila “vittime collaterali” tra donne, vecchi e bambini). Colpisci prima che il nemico colpisca te.

È la soverchiante supremazia militare che ha permesso al governo di Benjamin Netanyahu di alzare il livello delle incursioni visto che né gli ayatollah di Teheran, né Hezbollah, né la Siria sono state in grado di dare un seguito alle loro minacce di rivincita. Hanno sempre considerato, in modo saggio probabilmente, che uno scontro ad ampio raggio con lo Stato ebraico li vedrebbe soccombenti e hanno preferito accantonare la voglia di una risposta adeguata.

C'è però da chiedersi quanto sia lungimirante una politica che, assieme al numero di morti anche innocenti, fa aumentare un sentimento di ostilità nei confronti di Israele e che finirà inesorabilmente in futuro per sfociare in una coalizione unitaria in grado di restituire le offese di oggi. È tra le macerie di Gaza e tra quelle di ieri del Libano, che sta crescendo l'ennesima generazione che produrrà martiri della guerra Santa, nel circuito perenne di azione-reazione che da decenni avviluppa il Medio Oriente in una spirale di odio.

Se Bibi Netanyahu ha potuto ordinare l'ennesima ondata di bombardamenti è anche per la sostanziale acquiescenza da parte della cosiddetta comunità internazionale. Al di là di alcune rituali dichiarazioni di condanna, non c'è stato alcun atto concreto che potesse fermare la furia israeliana ormai distesa su tutto o quasi il quadrante regionale. Non c'è L'Onu, non c'è L'Unione europea, non c'è nessun organismo sovranazionale, non ci sono nemmeno gli Stati Uniti, nonostante alcune coraggiose prese di posizioni di Joe Biden, in grado di frenare l'escalation quotidiana.

L'impotenza si tradurrà nel futuro prossimo in una sorta di salvacondotto per qualunque nazione voglia imitare la tattica attuata da Tsahal e che potrà rifugiarsi dietro il precedente per giustificarsi.

La sensazione di una minaccia, reale o immaginaria che sia, alla propria integrità territoriale, o semplicemente la paura di un attentato sul proprio suolo sarà l'alibi per poter saldare i conti in anticipo con i supposti avversari. Sempre potendo contare sull'ignavia di un mondo che si volta dall'altra parte, finge di non vedere o che, se vede, non interviene essendosi viste spuntate le armi che aveva a disposizione: il prestigio che un tempo si attribuiva agli organismi internazionali, il timore per chi sgarrava di essere espulso dalla comunità degli Stati, di finire sotto sanzioni anche gravose o all'isolamento totale.

Non c'è dubbio che abbia contribuito a creare questo clima la crescita dei sovranismi spesso coniugati con regimi dittatoriali o con democrature. Sono proprio i sovranismi che hanno insegnato il motto per cui si deve essere “padroni a casa propria” senza nessun vincolo di appartenenza a qualunque comunità più larga. E senza la concessione di alcun diritto di ingerenza umanitaria negli affari interni di altri Stati, come si credeva non solo auspicabile ma addirittura necessario solo una ventina di anni fa.

Si è passati all'accettazione di una catastrofe umanitaria che si perpetua sotto i nostri occhi al punto da provocare assuefazione e una sostanziale indifferenza. Nella speranza recondita che le guerre si limitino dentro i loro perimetri e non si allarghino per toccarci direttamente. Come se i nostri valori dovessero valere solo per la difesa di noi stessi e non anche a Beirut, a Gaza, a Kiev.

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