Spesso di qualcosa che è atroce dal punto di vista morale o supera il punto di sopportazione dell’essere umano normale si dice che è “indicibile” – sofferenze indicibili, misfatti indicibili. Forse la cosa ha un duplice senso: che non c’è la forza di dire certe cose, tanto è l’orrore che incutono, ma pure che non si dovrebbe, forse, dirle, che non è lecito dirle.

Questo mi viene in mente assistendo alle varie reazioni alle improvvide parole di Nicola Turetta, un fatto molto discusso, che ha suscitato due tipi di risposta: sdegno per la diffusione inutile di un’intercettazione (utile o no che fosse l’intercettazione per la verità giudiziaria, non era utile la sua diffusione per la formazione dell’opinione pubblica), comprensione per la debolezza umana di un padre che cercava di consolare il figlio.

Gli attacchi a Nicola Turetta, le sue successive scuse e l’umiliazione gratuita che hanno comportato confermano queste reazioni. Su questo giornale, Walter Siti ha spiegato che è parte dell’umano da rispettare e conservare che ci siano debolezze ammissibili in privato, pur se indicibili in pubblico. C’è il diritto di «dire anche l’infamia, segretamente, alla persona che mi è più cara», perché «solo così potrà starmi vicino davvero».

Pubblico e privato

Questa distinzione fra pubblico e privato ha senso nella sfera del diritto, dove contano solo i comportamenti pubblici e non tutto va giudicato e punito, specialmente con la gogna. Alcune cose debbono rimanere al riparo dello sguardo di una società che punisce e giudica. Forse la cosa più importante sarebbe considerare come sostenere la famiglia Turetta (e la famiglia Cecchettin), facendoci carico come società di quel che è successo. E sicuramente diffondere le intercettazioni non è un modo di farlo.

Ma in una sfera più ampia, che cosa protegge l’idea di segretezza? C’è il diritto di dire infamie (o addirittura di commetterle) in segreto? Due cose vanno distinte. Una è la possibilità di confessare le proprie debolezze senza essere esposti al pubblico ludibrio, sempre e comunque. La possibilità di ammettere le proprie debolezze in privato, di esserne consolati da chi ci è caro, è sacra. Anche il peggior criminale merita spazi privati.

Ma, posto che alcune cose sono debolezze, o anzi infamie, dobbiamo pensare che ci siano spazi privati assolutamente intangibili? Che non ci debba essere uno spazio di riflessione per giudicare anche quelle sfere?

La cultura che produce i femminicidi, il modo di vedere le relazioni affettive che tutti stiamo discutendo e che è un fattore concomitante, seppur non causale, della violenza, che cos’è se non un affare privato? Il progresso morale non è anche una faccenda che fa cambiare le relazioni e gli atteggiamenti privati? Il privato può essere uno spazio dove si sospende ogni giudizio? Vogliamo una società dove si sia, per esempio, sessisti in privato, omofobi nelle nostre tavernette, e rispettosi in pubblico?

Mai più

Non possiamo volere una società del genere perché non è possibile avere due menti, due cuori, due visioni del mondo. Allora non basta dire che le parole di Nicola Turetta non avrebbero dovuto essere diffuse e che un padre può abbandonarsi a quello strazio. Bisogna anche dire che quelle parole sono un ulteriore segnale, non ridondante, dello stato in cui la nostra moralità versa. Sono un segnale d’allarme.

Non un fallo a cui inchiodare chi le ha pronunciate, ma un motivo per fare tutto quello che è in nostro potere perché non si possano più dire, mai in nessun contesto reale. In letteratura, forse, là dove l’indicibile si dice e si contempla, come spiega Siti. Ma non nella realtà, là dove non tutto è permesso e crediamo che ci sia un progresso, seppur faticoso, della moralità. Sempre che in questo progresso ci crediamo: talvolta la difesa di quel che sarebbe umano, di spazi privati dove non si dà giudizio, non è una reazione a eccessi di moralismo, ma un velato scetticismo, un implicito relativismo.

Il legno storto dell’umanità non si ripara, sembra dire Siti, quindi inutile punire e stigmatizzare. Siamo così, siamo deboli. Ma il progresso morale è possibile, ed è un nostro impegno inderogabile. E avviene in massima parte con le parole. Come dice Michela Murgia, nel suo secondo libro postumo (Ricordatemi come vi pare, Mondadori, 2024), le cose cambiano quando cambia il linguaggio, le cose si cambiano col linguaggio.

Certuni diventano figli perché li si chiama così, certi gruppi di persone che si amano diventano famiglia perché li si nomina così. E certe cose diventano assolutamente inammissibili perché non le si ammette neanche nel linguaggio più segreto e riposto.

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