- Al settantaseiesimo giorno di guerra la domanda è: perché siamo tutti così inabili a trattare il pensiero di una pace possibile e necessaria? Lasciamo da parte le caricature.
- Due ipotesi. La prima è compresa nella dialettica che da tempo si è impadronita del nostro discorso pubblico: è inevitabile si creino due categorie, quella degli “ottimati” e del “popolo”.
- Come uscirne? Non è il mio mestiere, ma se un consiglio mi sento di dare è provare – non sarà semplice, ma neppure impossibile – a depurare la scena dai nostri reciproci pregiudizi.
Al settantaseiesimo giorno di guerra la domanda è: perché siamo tutti così inabili a trattare il pensiero di una pace possibile e necessaria? Lasciamo da parte le caricature.
Chi segnala l’espandersi della Nato a est come chiave dello scenario di ora non è un putiniano di complemento. Lo stesso chi ricorda i livelli di corruzione presenti nell’Ucraina ante guerra o le formazioni neonaziste incistate nell’esercito regolare.
Di contro, chi ritiene giustificato il sostegno alla resistenza di Kiev anche tramite l’invio di armi e sistemi di difesa o denuncia le atrocità commesse dalle truppe d’invasione russe non è un guerrafondaio servo dell’imperialismo americano.
La sola conseguenza di questi automatismi è rafforzare gli arruolamenti spingendo ai margini quel tanto di spirito critico che dovrebbe indurre ciascuno a non condensare la storia in un tweet. Sin qui cose scontate. Però la domanda rimane e si fa fatica a darle una risposta.
Ottimati e no
Di mio azzarderei due ipotesi. La prima è compresa nella dialettica che da tempo si è impadronita del nostro discorso pubblico e che si può riassumere così: in una realtà, vera o artefatta, dove tutti si sentono in dovere di esprimersi su ogni cosa è inevitabile si creino due categorie distinte e dipendenti: quella degli “ottimati”, sapienti per prassi di titoli ed esami e quella di un popolo sparso e vociante, via social ma non solo.
Sino a ieri è stato il turno di virologi, medici e scienziati. In opposizione a quelli i contestatori di vaccini, mascherine, green pass. Ora è il turno della geopolitica, analisti di guerra e altre catastrofi, generali in servizio o in quiescenza.
Lo schema, comprese le regole d’ingaggio, nella sostanza è lo stesso o si somiglia parecchio. I saggi elaborano sintesi, delineano scenari, prospettano sviluppi. L’altra metà, più folta ma priva di portavoce autorevoli, contrappone complotti fondati sull’esibizione di un nemico, nel caso specifico lo “studio ovale” più citato al mondo.
Nel contesto si inseriscono le polemiche sul modo di condurre i talk o l’occuparsi bizzarro di chi possa parteciparvi da parte non già della commissione parlamentare di vigilanza, il che pure stonerebbe, ma del comitato di controllo sui servizi di sicurezza.
In tutto questo a finire offuscata è l’idea che la complessità del momento di tutto ha bisogno fuori che di una chiacchiera calibrata sull’insulto o la denigrazione.
Colpisce però come l’istinto a produrre quel caos o cacofonia di voci finisca col reclutare anche quanti per indole sarebbero ben disposti a ragionare.
L’effetto del clima – e vengo alla seconda ipotesi – è una curiosa autocensura. Quella reazione per cui se di fianco a te si leva una voce che imputa, qui e ora, a Joe Biden la responsabilità primaria della tragedia in atto, ti viene naturale lo scrupolo a non riferire quanto, in una diversa situazione, magari avresti rammentato, tipo la minaccia di dimissioni del segretario alla Difesa nell’amministrazione Clinton, William Perry, alla decisione di un allargamento della Nato oltre il centimetro massimo a est promesso in precedenza a Gorbaciov.
Depurare dai pregiudizi
Il risultato purtroppo non è, come si potrebbe immaginare, una dialettica più schietta e meno paludata, ma all’opposto una soluzione irrigidita che rimuovendo dal campo quella serie di variabili che pure aiuterebbero una comprensione più attenta degli eventi finisce col congelare analisi, scenari e prospettive dentro una griglia di “verità” assunte come tali in una coazione a ripetere che poco aiuta e molto confonde.
Come uscirne? Non è il mio mestiere, ma se un consiglio mi sento di dare è provare – non sarà semplice, ma neppure impossibile – a depurare la scena dai nostri reciproci pregiudizi.
Giorni fa al teatro Ghione di Roma convocati da Michele Santoro non c’erano degli sfrontati sostenitori del Cremlino, c’era una platea consapevole perché convinta che oggi una via alternativa a bombe e missili esista e vada cercata.
Nello stesso modo i trecento dirigenti che hanno partecipato alla due giorni di formazione del Pd ragionando con esperti e politici del futuro prossimo non pendono dalle labbra di Stoltenberg, più semplicemente provano a trovare la via percorribile per una strategia di mediazione.
Impedire a quelle due realtà di ascoltarsi e comunicare è funzionale solamente a chi la parola pace la invoca senza crederci. E questa, tra tutte, è la cosa in assoluto oggi più inutile e assurda.
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