Le campagne italiane sono luoghi meravigliosi che hanno segnato il paesaggio del nostro paese. Filari di frutta, vigneti, campi di grano, distese di girasole danno forma e colore a un paese che ha fatto del cibo la sua fortuna più grande. I turisti di tutto il mondo vengono in Italia per le sue bellezze, la sua storia, i monumenti, le opere d’arte, certo.
Ma soprattutto arrivano qui per mangiare. E quando tornano a casa hanno ancora il sapore in bocca di quell'ultimo boccone che hanno assaporato. Il made in Italy, il cibo italiano. Ed è forse proprio questo il tratto distintivo su cui ha tanto insistito il governo Meloni in questi anni, ed in particolare uno dei ministri di punta, Francesco Lollobrigida: «La valorizzazione del made in Italy è stata fin dal primo giorno un punto centrale per il governo Meloni, perché la qualità, che si sposa con i prodotti italiani, è un elemento da tutelare e promuovere». Si legge così un po’ ovunque nelle comunicazioni ufficiali e lui lo va ripetendo in giro come un mantra.
Il contadino-patriota
Hanno costruito un racconto tutto basato sul modello del contadino-patriota che nutre la nazione. E sono persino contento di questo racconto, devo ammetterlo. Ha ragione Lollobrigida, la nostra agricoltura è straordinaria. Ma questo racconto, questa narrazione, smette di essere valida se il contadino-patriota immaginato del governo deve essere dispensato da ogni regola, da ogni vincolo ambientale e sociale. Perché qui c’è un però, nemmeno tanto piccolo. Le campagne italiane sono splendide, è vero, ma allo stesso tempo nascondono anche la drammaticità di un'agricoltura fatta al massimo ribasso, sottocosto, sottopagata, sfruttata, ridotta alla miseria da un sistema tutto basato sull'idea che questo meraviglioso cibo made in Italy non debba costare nulla.
Solo che così facendo, avallando cioè l’idea di un’agricoltura bella ma che non vale niente, ci troveremo sempre davanti a vicende drammatiche (e criminali) come la morte di Satnam Singh, il lavoratore agricolo di nazionalità indiana, che dopo aver subìto un gravissimo incidente sul lavoro e aver perso un braccio, è stato abbandonato dal suo datore di lavoro e, poco dopo, ha perso la vita.
La morte di Satnam non è però un caso isolato, basterebbe ricordare le tragiche morti di Paola Clemente, morta di fatica nelle campagne pugliesi mentre si occupava dell’acinellatura dell’uva; basterebbe ricordare Mohammed Abdullah, il bracciante sudanese di 47 anni morto per un malore nel primo pomeriggio del 20 luglio 2015 nelle campagne tra Nardò e Avetrana, in Salento, mentre raccoglieva pomodori in una giornata di caldo torrido o Soumaila Sacko, 29 anni, bracciante del Mali, morto il 2 giugno 2018 con un colpo di fucile alla testa nelle campagne calabresi.
Sono alcuni dei casi più emblematici che ci ricordano la doppia faccia dell'agricoltura, quella delle meraviglie e quella del dolore, quella della bellezza e del caporalato, quella della vita e della morte. Sono due facce che convivono insieme da anni, forse da sempre. E la faccia brutta fa male prima di tutto a quella bella, fatta da migliaia e migliaia di agricoltori che faticano ogni giorno, resa possibile da lavoratrici e lavoratori che si spezzano la schiena per lavorare con dignità. In questi anni il Governo ha raccontato solo la faccia bella del Made in Italy, come se il resto non esistesse.
Ora però, di fronte all’ennesimo dramma che ha sconvolto la coscienza collettiva, non è più possibile tacere. Faccio quindi un appello al ministro Lollobrigida: se vuole bene l'agricoltura, se davvero vuole aiutare la parte più bella del Made in Italy, non nasconda la sua faccia più brutta, quella del caporalato e dello sfruttamento, quella del sottocosto che tratta il cibo come un qualcosa che non vale nulla. Combatta tutto questo a viso aperto, frontalmente. Il made in Italy gliene sarà grato, perché ne ha tutto da guadagnare, a partire dalla dignità delle persone che ci lavorano.
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