- Mentre l’ideologo del primo trumpismo Steve Bannon si prepara a essere interrogato dall’Fbi intorno ai fatti di Capitol Hill, l’attenzione dovrebbe spostarsi verso i lavori della National Conservatism Conference promossa dalla Edmund Burke Foundation.
- Gli interventi si susseguono dall’inizio del 2021. L’armamentario ideologico è sempre lo stesso: l’identità americana subisce l’attacco di una ideologia globalista che vuole soppiantare le culture nazionali.
- Non possiamo mancare di notare che è fra queste file che si devono cercare i più pericolosi avversari di Trump, gli unici capaci di parlare al suo elettorato e di sfilargli, anche grazie al vantaggio dell’età, il terreno sotto i piedi.
Mentre l’ideologo del primo trumpismo Steve Bannon si prepara a essere interrogato dall’Fbi riguardo al suo rifiuto di testimoniare al Congresso intorno ai fatti di Capitol Hill, l’attenzione per valutare lo stato del Partito repubblicano dopo la caduta dell’ex presidente dovrebbe spostarsi verso i lavori della National Conservatism Conference promossa dalla Edmund Burke Foundation, noto laboratorio delle idee neo-nazionaliste che si sono affermate negli ultimi anni. Gli interventi che si susseguono da inizio 2021, a un anno dalla sconfitta elettorale di Trump, sono istruttivi su diversi piani. Anzitutto quello propriamente culturale.
L’armamentario ideologico è sempre lo stesso: l’identità americana subisce l’attacco di una ideologia globalista che vuole soppiantare le culture nazionali. Il progetto si dipanerebbe in un vasto spettro che va dagli ideali liberali, ai matrimoni misti, fino agli studi sul gender. A questo quadro si affianca un totale ribaltamento di prospettiva, che porta ad autointerpretarsi come vittime del razzismo della mentalità liberal, rea di non ammettere l’intrusione di idee avverse al proprio dogma egalitario.
Classico argomento retorico utilizzato da tutti i movimenti antidemocratici di ogni latitudine (il filosofo egiziano Nasr Hamid Abu Zayd già mostrava quanto fosse utilizzato dai movimenti fondamentalisti islamici repressi dalle dittature laiche).
Così come le idee, consueti sono i profili dei protagonisti: al maschio bianco, devoto lavoratore e padre di famiglia, si aggiungono le perfette foglie di fico dell’african-american, che ricorda quanto i neri debbano agli Stati Uniti (vedere l’intervento dell’economista Glenn Loury) e della donna antifemminista che ricorda le virtù della famiglia tradizionale (Rachel Bovard), quella fondata per secoli sulla sottomissione della donna all’uomo.
Poi, critica alle élite (anche qui un ampio ventaglio che va dalle accademie fino alla Silicon Valley) e alla sinistra che ha abbandonato la working class. Niente di nuovo sotto il sole, in Italia ricordiamo bene il Mussolini che si dichiarava, in pieno regime fascista, l’unico «vero socialista».
Ora, al netto delle specificità nazionali, non si può fare a meno di notare l’analogia con posizioni che incontriamo nel dibattito europeo, in cui compaiono analoghi attacchi alle nuove tendenze culturali portate avanti dalla critical race theory, dal pensiero queer e dalle prospettive intersezionali. Così come il rifiuto delle grandi filosofie decostruttive del secolo scorso (più volte citati negli interventi Derrida e Marcuse) e del femminismo.
Anche se non è impresa semplice, un fil rouge fra interventi e argomenti così diversi che compaiono, mutatis mutandis, in entrambe le sponde dell’oceano è comunque possibile tracciarlo. Possiamo dire di trovarci di fronte a una nuova ideologia dell’apartheid, che vuole tenere separate le polarità che contraddistinguono la nostra vita.
Da una parte la civiltà dall’altra l’inciviltà; da una parte i neri dall’altra i bianchi. Da un lato l’uomo dall’altro la donna. Polarità che, naturalmente, sono solo un’astrazione della mente perché mai possono esistere l’una senza l’altra, esattamente come mai si dà il bene assoluto, il maschile assolutamente separato dal femminile e così per ogni dialettica in cui agisce la nostra esperienza.
Una visione rigida del limite, che seduce perché circoscrive un territorio sicuro e incontaminato, ma che non ha corrispondenza nelle nostre vite.
La tribù senza volto
La comprensione di un fenomeno, come noto, si ha quando se ne conosce l’origine. E se si va ad analizzare storicamente il fenomeno dell’apartheid è facile vedere al suo fondo il fantasma nazista, il prototipo di ogni ideologia separatista, che voleva eliminare il problema alla radice, cancellando dalla memoria stessa del mondo quell’ebraismo che per primo aveva aperto un orizzonte universalistico capace di travalicare ogni limite etnico e razziale, riconoscendo la comune radice adamitica di ogni individuo, maschio o femmina che sia (è noto che l’Adamo fosse un androgino. Per il nazismo come ideologia separatista rinvio al libro di Tommaso Tuppini La caduta: fascismo e macchina da guerra, Orthotes).
Secondo la Torah, il nazismo non è una categoria storica, ma metafisico-esistenziale e ha un nome preciso: Amalek, la tribù senza volto che ha come obiettivo identitario l’eliminazione del popolo ebraico.
Questa sfida, dice la tradizione, attraversa la storia del mondo, e Amalek è pronto a riemergere ogni volta che le circostanze tornano propizie. Come, ad esempio, sconquassi sociali ed economici dovuti ai grandi processi storici che stiamo attraversando.
Se, poi, vogliamo passare dal sacro al profano e interrogarci sulle implicazioni politiche della National Conservatism Conference da cui siamo partiti, non possiamo mancare di notare che è fra queste file che si devono cercare i più pericolosi avversari di Trump, gli unici capaci di parlare al suo elettorato e di sfilargli, anche grazie al vantaggio dell’età, il terreno sotto i piedi. Dinamiche che ritroviamo in altri contesti politici. Che si stia assistendo a una frammentazione della destra in nome del motto per cui per ogni puro ce n’è uno più puro di lui?
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