- Sale di nuovo la tensione in Nagorno Karabakh, Bosnia e Kosovo
- Se non si concludono paci definitive, i conflitti prima o poi riprendono
- La pace oggi sembra soltanto l’equilibrio dei rapporti di forza e non una scelta
Le frontiere si prendono la loro rivincita sulla globalizzazione, ormai in ritirata. Sale nuovamente la tensione nel Nagorno Karabakh, la regione contesa tra Armenia e Azerbaigian: gli azeri hanno attaccato alcune postazioni armene. Quella guerra del Caucaso dura da oltre trent’anni, con lunghe pause e repentine esplosioni, come nel 2020.
La caratteristica è che non si giunge mai ad un accordo di pace definitivo. Così accade in questi giorni anche nei Balcani: dalla guerra tra Nato e Serbia del 1999, Belgrado non ha riconosciuto l’esistenza del Kosovo indipendente. Per questo sta salendo di nuovo la tensione attorno alle enclave serbe che vivono come fossero sotto la sovranità di Belgrado.
La delicata costruzione bosniaca pare scricchiolare: la repubblica Srbska minaccia la secessione e l’annessione alla Serbia. Molte altre crisi riguardano, com’è noto, le frontiere della federazione Russa, fino all’attuale guerra contro l’Ucraina.
L’annessione della Crimea nel 2014 è stata una prima tappa. Prima ancora c’erano stati i conflitti in Georgia per l’Abkhazia e l’Ossezia; la creazione della Transnistria e numerose altre tensioni sparse lungo i vecchi confini dell’Urss, inclusa la questione cecena.
Poi vi sono le rivendicazioni turche, sia nell’Egeo che in Siria, basate sull’antica presenza dell’impero Ottomano. Ankara sconfina stabilmente in Iraq, verso Mosul. La frontiera stessa tra Iraq e Siria è rimessa in discussione, e non solo dall’ISIS che la considerava “empia” perché disegnata da infedeli.
Una volta cambiare un confine era considerato un tabù: durante la guerra fredda rappresentava una minaccia alla pace globale. Il principio di non ingerenza negli affari interni includeva il divieto di rivendicare territori altrui.
C’erano pur sempre i nostalgici, ma nessuno pensava fosse possibile costruirci sopra una seria politica. Gli accordi di Helsinki avevano ribadito l’intangibilità dei confini europei e il principio di non interferenza nelle rispettive sfere.
Oggi tutto è rimesso in discussione e ciò accade anche all’interno di paesi democratici: la questione catalana e quella scozzese sono note, così come quella dell’Ulster.
Non solo l’Europa e le aree vicine subiscono tale circostanza: la ritroviamo negli altri continenti come in Africa. In questo quadro il fatto più grave è lo sdoganamento della guerra come mezzo per risolvere i contenziosi o sostenere i propri diritti.
Nessuno si scompone più se uno Stato decide di utilizzare lo strumento militare e ciò diviene un’abitudine contagiosa.
Allo stesso tempo non si crede più tanto che la pace possa derivare da onesti negoziati: l’idea prevalente è che scaturisca dal bilanciamento dei rapporti di forza, cioè una conseguenza e non una scelta.
In questo modo di sta sprecando la grande pace del dopo guerra fredda e la scelta del “never again” presa dopo la seconda guerra mondiale.
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