Il negoziato sulle nuove regole di bilancio è stato trasformato in una battaglia politica identitaria. Il vero argine contro una crisi del debito dell’Eurozona resta la Bce
Ratifica del Mes e riforma del Patto di stabilità sono considerate questioni politiche. Mes è sinonimo di condizionalità, ovvero di limitazioni alla sovranità politica di un Paese: anatema per un governo sovranista. Patto di stabilità significa limiti alla spesa pubblica, che in Italia viene troppo spesso usata per costruire consenso politico.
Ma concentrarsi sugli aspetti politici offusca il problema economico: Mes e Patto di stabilità sono istituzioni pensate per rispondere a difetti strutturali della costruzione europea; così come lo sono il negoziato che ha portato a riformare il Mes e adesso il Patto di stabilità, con l’accordo appena annunciato.
È ragionevole che l’Italia abbia cercato di tutelare i propri interessi; ma è stato controproducente trasformare un negoziato economico in una contesa politica in cui la minaccia di non ratificare il Mes o di porre il veto sul Patto sono stati usati come arma (spuntata) di ricatto. Ed è soprattutto sbagliato non avere la consapevolezza che Mes e nuovo Patto non sono riforme definitive, ma passi di un processo di lungo periodo, teso a rendere più solido il sistema economico e finanziario dell’Eurozona.
Debito e rischi
Il difetto di origine dell’euro è che la moneta è unica, ma i paesi hanno autonomia in materia di politica fiscale. C’è quindi il rischio di una crisi del debito in caso di shock reali, specie se colpiscono in modo diverso i vari paesi; o nel caso un paese abbia un debito pubblico insostenibile tale da portare a una crisi, con il rischio di contagio per l’intera area.
Il Patto di stabilità venne sottoscritto nel 1997 prevalentemente per prevenire il secondo rischio: i paesi si impegnarono a rispettare un tetto per deficit e debito pubblico, i famosi 3 e 60 per cento, e alla Commissione si attribuisce potere di sorveglianza, (ma non di imposizione). La crisi del debito pubblico greco, rapidamente estesa a tutta l’Eurozona, ha dimostrato i limiti di questo potere di prevenzione, oltre ad evidenziare la mancanza di una istituzione preposta alla gestione di una crisi: per la Grecia venne infatti formata una troika ad hoc con il Fondo monetario internazionale, istituzione non europea ma esperta di crisi, la Bce, che ha come unico obiettivo la stabilità dei prezzi, e infine la Commissione europea. Il Mes fu costituito per ovviare a questa mancanza, e poter gestire le crisi con risorse proprie e poteri di condizionalità.
Dato che la crisi del debito sovrano si trasformò rapidamente in crisi bancaria, nel 2014 vennero create la Vigilanza bancaria unica all’interno della Bce, la normativa sulle risoluzioni bancarie con l’obiettivo anche di limitare l’intervento in autonomia dei governi a sostegno delle proprie banche, e la costituzione di una istituzione per la gestione delle banche in crisi (Single Resolution Board), che però non ha risorse finanziarie sufficienti.
Fornire queste risorse è lo scopo della riforma del Mes, che l’Italia si rifiuterebbe di ratificare. Ci si dimentica però che, anche con il Mes, il sistema bancario europeo rimane frammentato a livello nazionale, perché manca ancora un’assicurazione unica sui depositi (ogni governo è riluttante a impegnare risorse del proprio paese per assicurare i depositanti degli altri), e un’unica attività finanziaria priva di rischio per tutte le banche dell’Eurozona, che quindi investono nei titoli di stato del proprio paese, perpetuando il pericoloso legame tra debito pubblico e banche.
Il Patto di stabilità aveva il difetto di fissare limiti rigidi a deficit e debito pubblico, senza tener conto di possibili shock reali e delle conseguenti politiche fiscali straordinarie per attenuarne l’impatto.
Così, mentre gli Stati Uniti di fronte alla grande crisi del 2008 intervennero con provvedimenti straordinari portando il deficit federale da 1 per cento del Pil a quasi il 10, l’intervento tedesco fu molto più contenuto, passando dal pareggio a un deficit del 4 per cento, a cui seguì una politica di austerità che portò a un surplus di bilancio di quasi 2 punti percentuali nel 2018
. Austerità e pareggio di bilancio sono stati considerati un obiettivo da perseguire ed esportare, a prescindere dall’impatto asimmetrico di uno shock. Solo la pandemia da Covid e la crisi energetica seguita alla guerra in Ucraina hanno reso palesi i vizi di fondo del Patto, rendendo la sua sospensione ineludibile.
Vizi di fondo
Il nuovo Patto prevede ora traiettorie differenziate che i vari paesi dovrebbero seguire per ritornare nel tempo ai vincoli del Patto originale, che però rimangono uguali per tutti; e alcune voci di spesa da escludere ai fini del calcolo del deficit.
L’accordo è un passo avanti perché equivale ad ammettere che gli shock reali hanno effetti asimmetrici e perciò, con una politica monetaria unica, è indispensabile che le politiche fiscali debbano divergere almeno temporaneamente. Ma rimangono i vizi di fondo: il livello obiettivo di deficit e debito in rapporto al Pil rimane fisso e uguale per tutti, nonostante i possibili futuri shock reali legati alla transizione ambientale o all’aumento delle spese militari a fronte dei nuovi rischi geopolitici; o a eventi imprevedibili che, in quanto tali, hanno gli effetti più dirompenti.
La vera riforma, che sanerebbe il principale vizio del Patto, sarebbe quella prevedere la mutualizzazione del debito con titoli emessi dalla Commissione, e garantiti solidalmente dai vari paesi, per affrontare, fuori dal Patto, eventuali shock reali: una politica fiscale comune, pur limitata a momenti straordinari, come fu nel caso del Covid. Purtroppo, di questa riforma nell’attuale dibattito non c’è traccia.
Il nuovo Patto di stabilità, non risolve neanche il potere limitato di prevenzione delle crisi del debito, sia perché la rigidità che caratterizza il Patto (limiti ai deficit, tempi e modalità di rientro di ogni paese verso questi limiti) espone l’area al rischio che uno shock inatteso renda insostenibile il debito di qualche paese, sia perché non è semplicemente credibile che si possa imporre ai vari paesi il rispetto nel lungo termine di traiettorie differenziate predefinite con la “procedura di infrazione”: essendo impossibile prevedere quale sarà la loro crescita potenziale in futuro, e quindi la loro capacità di rispettarle.
L’utilità del Mes
Il rischio di una crisi del debito pubblico di un paese, con il possibile contagio per l’intera area euro, dipenderà dunque, alla fine, dalla convinzione in quel momento del mercato che ci sarebbe l’intervento del compratore di ultima istanza, che è la Bce. Il «whatever it takes» di Draghi, in un verso, e il «non siamo qui a chiudere gli spread» di Lagarde, nel verso opposto, sono chiari esempi di come la percezione della volontà della Bce possa disinnescare, o innescare una crisi.
Ma con la riduzione delle risorse del Pepp da metà 2024, e la sua eliminazione subito dopo, vengono meno le risorse che la Bce potrebbe utilizzare autonomamente per interventi a sostegno dei titoli di Stato di un paese; credo quindi che rimarrebbero solo gli acquisti previsti dal Outright Monetary Transactions, che però richiedono l’adesione a un programma di condizionalità di Mes e Commissione.
Affermare che tanto il Mes non lo useremo mai non è pertanto corretto: se un’asta del Tesoro non viene interamente sottoscritta, e la Bce non interviene sul secondario a sostegno del debito pubblico, il governo che fa? E che farebbe se non ci fosse anche il Mes? Invece di fare di Mes e Patto la battaglia politica identitaria, con l’occhio puntato alle prossime elezioni europee, sarebbe stato meglio se l’Italia si fosse proposta in modo pro attivo e costruttivo per migliorare il quadro istituzionale dell’Eurozona in un’ottica di lungo periodo.
Il governo dovrebbe finalmente rendersi conto che l’unica vera garanzia contro una crisi del debito è una politica fiscale sostenibile, con un avanzo primario prolungato nel tempo. Ma anche di questo non c’è traccia.
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