Il leader dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, è la figura centrale nell’impeachment contro Donald Trump iniziato mercoledì alla Camera, e non solo perché è lui a regolare le procedure e decidere i tempi della votazione. Come più alto rappresentante del blocco istituzionale dei repubblicani, McConnell è anche la persona da guardare per capire se e in che modo il partito vorrà uscire dall’ombra di Trump.

Alla Camera non c’è stata la decisa ribellione che qualcuno immaginava o sperava. Dieci deputati hanno votato per l’impeachment: sono dieci in più di quelli che hanno votato a favore del primo impeachment, ma sono molti meno di quelli che hanno obiettato alla certificazione della vittoria di Joe Biden. A conti fatti, il 75 per cento dei repubblicani alla Camera ha sostenuto in sede istituzionale la fantasia trumpiana dell’elezione rubata, mentre il 93 per cento ha di fatto scagionato il presidente dall’accusa di avere incitato l’assalto al Campidoglio. Su questi dati si muove con cautela McConnell, attempato animale tattico di Washington che detesta i rischi e rifugge le iniziative avventate.

McConnell ha fatto sapere al New York Times di aver accolto con piacere la notizia dell’impeachment di un presidente che considera colpevole; poi, vedendo che le sue dichiarazioni venivano interpretate come una bozza di dichiarazione di voto contro Trump, ha smentito «le speculazioni dei media» e ha detto che sta ancora pensando come voterà quando, con una calma che stride con l’evidente urgenza delle circostanze, il Senato si riunirà, il 19 gennaio. I senatori fedeli a Trump ripetono in tutti i talk show in cui ancora vengono invitati che McConnell è il direttore dei lavori dell’impeachment, ma non ha alcun potere sul caucus repubblicano, eppure l’importanza politica e simbolica delle sue decisioni non va sottovalutata.

McConnell è la personificazione dell’establishment repubblicano, praticamente un pezzo della mobilia del Congresso, un negoziatore scontroso ma pur sempre un negoziatore, è uno che non ha mai avuto come massima aspirazione quella di fare il presidente ma di fare il leader di maggioranza al Senato, quindi una sua decisione di votare per la destituzione del presidente sarebbe il segnale che ciò che rimane del palazzo repubblicano rinuncia a Trump e a tutte le sue tentazioni. Non sarà abbastanza per garantire un futuro de-trumpizzato al partito, ma non è poco.

Gli ostacoli

Nel percorso che McConnell deve fare per arrivare a votare contro Trump ci sono due ostacoli. Primo, la popolarità del presidente presso l’elettorato repubblicano. In queste ore certamente il capo del Senato sta studiando gli indici di gradimento del presidente, e quel che vede non gli piace: il 64 per cento dei repubblicani approva il comportamento di Trump delle ultime settimane, il 57 per cento pensa che dovrebbe essere il candidato repubblicano alle presidenziali del 2024 e solo il 17 per cento pensa che dovrebbe essere rimosso dall’incarico (fonte: Axios-Ipsos). Se si guardano i dati ancora più nel dettaglio si scopre che l’approvazione rimane alta, vicino al 50 per cento, anche fra i repubblicani che si definiscono “tradizionali”, cioè quelli che dovrebbero in teoria essere rappresentati proprio da McConnell.

Il secondo ostacolo è la personalità del leader del Senato. Per inquadrarla bisogna prendere come riferimento la grande tradizione americana dei leader carismatici che con spirito indomito, idee innovative ed eloquio perfetto hanno alimentato i sogni e le speranze di generazioni di elettori. Ecco: McConnell è l’opposto. Carismatico come un’ostrica (definizione del biografo John David Dyche), ha costruito una carriera sull’arido calcolo del rischio politico nel breve termine, e il metodo che ha generalmente seguito s’accorda male con una testimonianza d’ardimento nell’ultimo atto di un presidente che, forse, anche lui detesta.

 

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