Quando parliamo degli oscar rischiamo sempre di cadere in un errore: l’idea che quello che abbiamo visto e amato debba essere valorizzato per forza dall’Academy. Ma c’è anche altro da considerare (compreso qualche mistero). E ci sono buoni motivi per credere che Io capitano alla fine non vincerà
La vera incognita della notte degli Oscar sarà il reggiseno con finti capezzoli testé brevettato da Kim Kardashian: avrà attecchito o sarà disdegnato dalla metà del cielo dello star system in spolvero d’occasione? Kardashian garantisce che il capezzolo turgido artificiale è una figata da dive. Scusate la bischerata ma il vecchio buon senso è il miglior antidoto allo stress da statuetta.
L’onda emotiva
Trattasi sempre e comunque di una meat parade, una sfilata di carne, tanto per attenersi all’icastica definizione di George C. Scott, il primo attore di sempre (prima di Marlon Brando) a ricusare il premio. Era il 1970, per la cronaca, e l’aveva vinto per Patton.
A meno di sganassoni fuori programma, per i consumatori di cinema nati nel terzo millennio lo show è paccottiglia come l’ometto pelato placcato d’oro, che neanche vale il suo peso. È salutare premettere a ogni meditazione sulla meat parade dell’anno di grazia 2024 che a entrare in fibrillazione per le cinquine sono soltanto gli ultimi rappresentanti del Giurassico. Non c’è nemmeno il televoto come a Sanremo per darti il frisson della suspense autogestita.
Parlo pertanto per la pattuglia dei dinosauri italiani: è sacrosanto gongolare per il nostro Matteo Garrone in cinquina, specie ricordando la bocciatura sonora non solo di Pinocchio ma anche del suo strepitoso Gomorra, una quindicina di anni fa.
C’è però un brutto vizio che alligna nel tifo ordinario per i campioni di casa: quasi nessuno ha visto “tutti” i titoli in lizza. Io capitano ha dalla sua l’anima antitrumpiana (maggioritaria) dell’Academy. Loro hanno il muro contro l’immigrazione dal Messico, noi abbiamo il cimitero del Mediterraneo.
È il sentimento che permise a Gianfranco Rosi e a Fuocoammare di conquistare l’Orso d’oro a Berlino nel 2017, con Meryl Streep, non a caso, a presiedere la giuria. È un sentimento che conta nella film industry statunitense, con lo tsunami presidenziale repubblicano ormai alle porte. Da statuto, gli Oscar premiano il merito. Di fatto, sono le campagne promozionali e l’onda emotiva a decidere.
La zona d’interesse
Il vero match emotivo, nella categoria Best International Feature Film, si gioca tra gli immigrati e l’Olocausto. Perché di lager nazisti, di Auschwitz, parla il sublime La zona d’interesse di Jonathan Glazer, basato sul romanzo omonimo di Martin Amis. Dettaglio cruciale: è anche candidato per la regia di Glazer e la sceneggiatura non originale, ma soprattutto corre tra i dieci potenziali best movies dell’anno.
Oppenheimer di Christopher Nolan e Povere Creature! di Yorgos Lanthimos, con ogni evidenza, se lo mangeranno in un boccone sputando gli ossicini. Ma pensiamo davvero, e seriamente, che un gioiello di stile resterà con un pugno di mosche?
Glazer ha già ingoiato la sua porzione di rospi a Cannes, dove ha dovuto cedere il podio ad Anatomia di una caduta, per somma ironia servito dalla sua stessa attrice, Sandra Huller. Uno scacco bis è fuori questione. Siamo realisti: Garrone resterà fuori, come Wim Wenders, del resto, col suo Perfect Days. Se non altro è in ottima compagnia.
Errori di percezione
Non so voi, ma io ho un sacco di amici che sentenziano placidamente : «X è il miglior film dell’anno, l’attore Y è il più bravo di tutti!». Magari hanno visto solo quel film e quel solo attore al lavoro, ma la certezza è adamantina.
Io per principio vado coi piedi di piombo, perché di roba ne vedo tanta, ma tutta mai. Mai e poi mai mi giocherei dai bookmaker la sfida infernale (all’ultimo sangue, sì, stile John Ford) tra Nolan e Lanthimos, perché per uscirne bene devi adottare la diplomatica formula dei Golden Globes: vincitori a pari merito in categorie diverse, dramma e commedia. Se l’Academy avesse un briciolo di buon senso, la copierebbe.
Non mi garbano nemmeno i rosari di lamentazioni sui “grandi esclusi” che fioccano all’indomani dei premi o in vista dei medesimi. È bene farci la tara: lo spettatore che è dentro ognuno di noi ragiona sempre più con le viscere che col cervello, e i guru della critica non fanno eccezione.
Il vero mistero
Quello che mi disturba davvero sono le ingiustizie ostinate e paludose, quelle che obbediscono a oscure ragioni che non ti è dato conoscere. Nessuno mi spiegherà mai come diavolo sono riusciti a lasciar fuori Willem Dafoe dal pacchetto di nomination per Povere creature!
Il film ne ha undici, la dodicesima disturbava? Da quarant’anni Dafoe incarna, più di qualunque altro interprete, tutto il cinema che merita di essere ricordato. Ma è come se a Hollywood non lo considerassero uno di loro. Lo hanno candidato quattro volte, ma di risulta e controvoglia.
I film passano, i misteri restano. Gli Oscar 2023 li abbiamo rimossi, verosimilmente per sostanziale disaccordo. Degli Oscar 2022 in fondo tutti ricordano solo lo sganassone e il castigo alla Franti, genere libro Cuore: per dieci anni Will Smith non potrà rimettere piede nel Dolby Theatre. Buon per lui, commenterebbe George C.Scott: si risparmia la meat parade.
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