Con un lungo documento la chiesa di Roma rilancia il dibattito sul papa, che Paolo VI nel 1967 aveva con franchezza definito «il più grave ostacolo» per la riunificazione dei cristiani. Il nuovo testo è utile nel segnalare i reali e notevoli progressi realizzati dell’ultimo mezzo secolo, ma di fatto conferma che il cammino sulla via dell’unità segna il passo.
Nelle centocinquanta pagine di questo «documento di studio», l’organismo vaticano incaricato dei rapporti con gli altri cristiani e con gli ebrei riassume le risposte che arrivarono a un’iniziativa senza precedenti di Giovanni Paolo II. Nel 1995, con l’enciclica Ut unum sint, il papa polacco aveva invitato tutti i cristiani, «evidentemente insieme», ad aiutare il vescovo di Roma nel trovare nuove forme di «un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri».
Le risposte furono una trentina dal mondo anglicano e protestante, ma nulla arrivò dalle chiese ortodosse. Appena eletto, Benedetto XVI aveva confermato come suo «impegno primario» quello della «piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo». Poi con la sua rinuncia – afferma ora e con ragione il documento vaticano – ha «contribuito a una nuova percezione e comprensione del ministero del vescovo di Roma».
Pochi mesi dopo la rinuncia di Benedetto XVI, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, il testo programmatico del pontificato, Francesco ricordava che Wojtyła aveva chiesto di essere aiutato nella ricerca di «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova». Ma aggiungeva: «Siamo avanzati poco in questo senso».
A confermare la diagnosi di Bergoglio era poi, nel 2016, lo stesso Ratzinger rispondendo a Peter Seewald che gli chiedeva delle delusioni in ambito ecumenico. «Su questo punto era difficile per me rimanere deluso – diceva Benedetto XVI – perché conosco la realtà e so cosa ci si può aspettare in concreto e cosa no. La relazione tra noi e i protestanti e tra noi e gli ortodossi è molto diversa» e diversi sono «gli ostacoli a un riavvicinamento».
A causa della crisi del protestantesimo, e per «il peso della storia e delle istituzioni» nei rapporti con il patriarcato di Mosca, spiegava Ratzinger, meno ottimista rispetto a quanto aveva detto nel 2010 allo stesso intervistatore. Invece, «tra la chiesa di Roma e quella di Costantinopoli si è sviluppato un autentico rapporto fraterno» sottolineava Benedetto XVI. Pesavano evidentemente sulle sue parole la crescente tensione per la situazione ucraina e il fallimento, provocato da Mosca, del concilio panortodosso di Creta.
Nonostante difficoltà vecchie e nuove, il dialogo tra teologi cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti è avanzato anche sul primato. Con avvicinamenti reciproci di una certa importanza, anche perché – oltre la trentina di risposte all’invito di Giovanni Paolo II – sono ben cinquanta i «documenti di dialogo ecumenico sul tema» riassunti nel testo vaticano, ha ricordato il cardinale Kurt Koch.
Da questi testi risulta che le rispettive posizioni si sono avvicinate sull’interpretazione dei fondamenti biblici del primato, sulla sua origine e sul suo esercizio, ma notevoli restano le differenze. Un maggiore consenso si registra invece sul rapporto tra autorità papale – che deve essere distinta da quella come capo dello stato vaticano, in stridente contrasto però con la vigente legge fondamentale vaticana – e collegialità episcopale. E molto valorizzata è la dimensione sinodale. Che resta tuttavia da definire e, soprattutto, da applicare realmente.
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