- Elon Musk ha presentato di recente Neuralink, una tecnologia che potrebbe facilitare la risoluzione di reali problemi di salute. Per dimostrarla al pubblico, Musk ha lavorato con un maiale.
- La sperimentazione sugli animali non è una decisione che gli scienziati prendono a cuor leggero, ma quando accade diventano spesso bersagli delle rivendicazioni degli animalisti, com’è successo a Marco Tamietto e Luca Bonini.
- La politica dovrebbe eliminare i vincoli che limitano la ricerca scientifica di questo tipo: il lavoro dei due scienziati è stato già bloccato due volte da ricorsi, ma alternative non sono percorribili.
Rimbalzano sui media notizie relative al Neuralink, un’interfaccia tra cervello e computer prodotta da Elon Musk che promette di comandare dispositivi informatici “con la mente”. Non voglio entrare troppo nel merito di questa tecnologia: piuttosto mi interessa come la notizia viene recepita, digerita e riproposta dai media e infine dal pubblico.
Il Neuralink è descritto in chiave positiva e miracolistica, non solo come un passo verso un’inevitabile e bellissima evoluzione dell’uomo in cyborg, ma anche come possibile soluzione a reali problemi di salute, come cecità e paralisi. In agosto Musk ha tenuto una conferenza stampa dove ha mostrato un maiale cui era stato impiantato il Neuralink che toccava oggetti col muso generando suoni e pattern luminosi su uno schermo: ma siamo abituati alle uscite mediatiche di Musk e ormai non sorprendono più.
Quello che invece importa analizzare è la costruzione nell’immaginario collettivo di una sorta di “verità metaforica”, ossia l’accettazione collettiva e universale di una convenzione, indimostrata e arbitraria, ripetuta come un mantra prima dai media poi tutti insieme al fine di elevarla al rango di verità. In questo caso il mantra che la tecno-scienza di Musk è buona, utile, anzi necessaria, etica e di innocua implementazione.
I maiali non soffrono assolutamente per le sue sperimentazioni e l’applicazione all’uomo è scontata, quasi banale e sicuramente benefica. Per inciso, la scelta del maiale per i test sul Neuralink forse è giustificata da valutazioni scientifiche che ignoro, ma è anche molto azzeccata. Noi umani tendiamo a sviluppare meno empatia verso un maiale che rispetto a un cane, un gatto, un cavallo o una scimmia.
L’idea di Dick
Questo aspetto psicologico è esplorato magistralmente da Philip K. Dick nel romanzo che ha ispirato Blade Runner dove, per dimostrare di non essere malefici replicanti senza emozioni, le persone dovevano esibire capacità empatiche prendendosi cura di un animale. Nel mondo distopico disegnato da Dick i miliardari si mettevano al sicuro dall’accusa di essere replicanti possedendo gli ultimi grandi animali rimasti sulla Terra, come i cavalli, ma non mi pare di ricordare alcun maiale. Sicuramente la costruzione di verità metaforiche è utile a vendere prodotti o fare personal branding, ma è molto dannosa per la decodifica della complessità delle sfide scientifiche odierne.
Vi sono ricerche che presentano situazioni difficili e che meritano di essere considerate con attenzione e profondità di analisi da media e istituzioni e di essere correttamente decriptate dai cittadini cosicché essi siano consapevoli delle ricadute positive che implicano per la vita di tutti.
Le applicazioni come il recupero della vista e delle funzioni cerebrali per cui si vorrebbe usare una logica plug & play (come quella suggerita dal Neuralink) in realtà richiedono ricerche biomediche estremamente sofisticate, difficili e costose, soprattutto da un punto di vista etico, perché purtroppo non basta qualche maiale che accenda lucine su uno schermo.
Questo tipo di ricerche sono portate avanti anche in Italia, in particolare da due vincitori di finanziamenti europei del programma Erc (European research council): Marco Tamietto (politecnico di Torino) e Luca Bonini (università di Parma), i cui progetti di ricerca hanno proprio l’obiettivo di recuperare le funzioni visive di pazienti che hanno subito danni cerebrali a causa di traumi o ictus. Purtroppo, queste ricerche non possono fare a meno di test su animali e prevedono la sperimentazione su primati non-umani, come i macachi, al fine di indagare, a livello neuronale, aspetti di plasticità decisivi per il recupero delle funzioni cerebrali e della vista.
Scienziati, non replicanti
Gli scienziati non sono come i replicanti privi di empatia di Blade Runner e nessun ricercatore decide di usare la sperimentazione animale a cuor leggero o per crudeltà ma solo ed esclusivamente quando ciò è inevitabile visto che la nostra conoscenza della complessità biologica è, purtroppo, ancora incompleta. Non c’è nessuna correlazione tra la sperimentazione animale e generici atti di crudeltà verso gli animali, che anzi vanno repressi duramente. Ma queste distinzioni sono difficili da elaborare da parte dei cittadini e nell’indifferenza generale i due ricercatori sono diventati addirittura bersagli di minacce e attacchi al limite del terroristico da parte di gruppi animalisti. Questo in conseguenza del clamore sollevato intorno alle attività di ricerca di Tamietto e Bonini da parte della Lav (Lega anti vivisezione) che nel 2019 ha presentato un ricorso al Tar, subito rigettato.
La Lav ha poi portato la questione al Consiglio di stato che ha invece ordinato una sospensiva. In seguito il Tar ha nuovamente sbloccato la situazione, ritenendo prive di fondamento le istanze della Lav. In questi giorni il Consiglio di stato ha deliberato una nuova sospensiva, richiedendo un supplemento di indagine in una girandola di capovolgimenti di fronte. A parte il fatto che non si capisce chi dovrebbe indagare, se non gli stessi ricercatori, una materia che è per definizione ignota, quello che conta è che uno scienziato non dovrebbe combattere nei tribunali per portare avanti la propria attività di ricerca, né tantomeno arrivare a ricevere lettere minatorie con tanto di proiettili da soggetti che evidentemente amano tanto gli animali da essere pronti a sacrificare al loro posto gli esseri umani.
Tamietto e Bonini e il loro progetto di ricerca, che ha superato una durissima selezione internazionale, vengono delegittimati, minacciati e lasciati soli da media, istituzioni e opinione pubblica: per quanto tempo può resistere un ricercatore in queste condizioni? Il dilagare del pensiero antiscientifico investe tutti i livelli, anche quello politico-giudiziario che ha offerto sponda a diverse posizioni pseudo e antiscientifiche, come la “cura” Di Bella, Stamina, le istanze NoVax e, recentemente, le crociate dei sindaci Stop5G. Questa deriva è estremamente pericolosa e fa temere che quanto sta accadendo a questi due scienziati un domani potrà succedere ad altri in altre discipline: basterà che esse siano prese di mira da qualche gruppo ben organizzato e determinato di guastatori cognitivi.
Il pensiero scientifico, con la sua attrezzatura logica induttivo-deduttiva corroborata dalla verifica sperimentale è una merce di cui l’Italia è carente malgrado sia stata la culla della scienza con Galileo.
Interi settori della ricerca pubblica di base sono drammaticamente sotto finanziati, come quello delle scienze della vita, la cui importanza strategica è ormai evidente, vista la pandemia in corso, anche agli osservatori più distratti.
Il rischio per il futuro
Oltre al rifinanziamento e al potenziamento delle infrastrutture di ricerca esistenti questo settore va liberato da limitazioni bioetiche troppo stringenti che esistono praticamente solo in Italia e che impediscono di fatto la competizione con i paesi più avanzati e intralciano persino eventuali collaborazioni, in quanto ogni progetto congiunto deve sottostare ai vincoli della legge italiana.
La politica è fatta di scelte e la politica scientifica non fa eccezione. Se vogliamo che le persone vengano guarite da malattie genetiche terribili, gli vengano evitati trapianti di organi e recuperino la capacità di vedere o di camminare abbiamo tre possibilità: fare le ricerche che occorrono, con mezzi e finanziamenti adeguati, utilizzando le tecniche necessarie, compresa la sperimentazione animale quando gli scienziati lo ritengano assolutamente inevitabile. Oppure potremmo sperimentare direttamente su soggetti umani come facevano i nazisti. La terza possibilità consiste nel lasciare che la gente muoia. Spero che chi ritiene le due ultime scelte percorribili non debba trovarsi nella condizione di essere parte di esse.
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