- Un tratto della democrazia italiana che tendiamo a ignorare, pur soffrendone, è che i nostri parlamentari non sono veramente liberi.
- Se i parlamentari non sono liberi il rapporto di rappresentanza che lega le aspirazioni dei cittadini al governo della cosa pubblica si svuota, e la «centralità del parlamento» svanisce.
- Rafforzare la libertà dei parlamentari deve essere una priorità delle riforme: quella elettorale, in primo luogo, e poi quelle dei partiti e del loro finanziamento, assicurandone la democrazia interna, e trovando il modo di elevare la qualità dei media e della discussione pubblica.
È incerto se la legge elettorale sarà riformata prima delle elezioni. Ma il dibattito proseguirà, e vorrei si allargasse a un tema sinora ignorato: la libertà dei parlamentari. Il problema è bene illustrato dalla critica mossa a Elisabetta Casellati, candidata al Quirinale, per la sua veemente difesa della tesi che davvero Silvio Berlusconi pensava che Ruby rubacuori fosse nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak, quando chiamò la polizia per aiutarla.
Quella critica banalizza il caso, che non ha precedenti nelle democrazie consolidate. Perché furono 315 i deputati che votarono a favore di quella tesi, il 3 febbraio 2011, e tra essi si contano tutti i deputati del Pdl e della Lega (inclusi, tra quelli che ora rivestono ruoli di alta responsabilità, Renato Brunetta, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Giancarlo Giorgetti, Giorgia Meloni). Nessuno si sottrasse, neppure con l’assenza. Parlamentari pronti a piegarsi così in basso sono liberi?
La domanda non interpella solo il centrodestra, naturalmente. Ricordo l’enfasi con la quale il suo gruppo difese le frasi di Matteo Renzi sul «rinascimento saudita», per esempio, o la compattezza con la quale nel 2015 troppi eletti del Pd si prestarono alle più disinvolte tattiche parlamentari per forzare l’approvazione di una legge elettorale, l’Italicum, che non era nel programma elettorale ed era fortemente sospetta di essere incostituzionale, come fu poi dichiarata. La domanda, infatti, non riguarda tanto la moralità degli eletti o dei partiti quanto le condizioni oggettive nelle quali essi operano.
Le riforme elettorali
La prima è data dalle leggi elettorali. Quelle in vigore dal 2005 a oggi escludevano o fortemente limitavano il potere degli elettori di selezionare gli eletti, consegnandolo alle dirigenze dei partiti. In genere, quindi, chi vuole candidarsi o farsi rieleggere deve promettere, e poi dimostrare, fedeltà ai capi di partito o di corrente dai quali la candidatura dipende.
In partiti con vigorosa democrazia interna, salda cultura politica, una chiara visione del bene comune, e programmi cogenti questo non sarebbe un serio problema: perché l’eletto potrebbe comunque far valere la propria indipendenza di giudizio dentro il partito, e poi distaccarsene qualora esso tradisse la visione o i programmi presentati agli elettori.
In partiti distanti da quel modello, come sono quelli italiani, il vincolo invece si aggrava: perché i loro capi sono pressoché irresponsabili, salvo congiure di palazzo, e spesso agiscono mediante negoziati privi di trasparenza.
Una terza condizione è il finanziamento della politica, che ora agevola l’influenza sui partiti degli interessi particolari organizzati, deprimendone ulteriormente la trasparenza e democrazia interna.
Un’altra riguarda la qualità dei media e della discussione pubblica. Per quanto forti siano le pressioni alle quali gli eletti sono sottoposti, infatti, il timore della critica e del discredito pubblico dovrebbe dissuaderli dal prendere posizioni indifendibili, come quelle appena ricordate.
Avere un padrone
In queste condizioni, il parlamentare medio è una persona che ha un padrone e sa di averlo; ha deboli appigli o coperture esterne per far valere le proprie convinzioni, o l’interesse generale; e alla stretta si piegherà spontaneamente al volere del padrone (o passerà sotto un altro, per via di trasformismo, come spesso accade).
Infatti nessuno accusò Berlusconi di aver costretto o minacciato i deputati che votarono su Ruby: costoro agirono così perché sapevano che il loro futuro dipendeva in larga misura da lui, le cui doti personali, televisioni e capitali formavano la principale forza del centro-destra.
Questo assetto rende prevedibili i voti del parlamento – tranne quelli a scrutinio segreto, come questa elezione presidenziale ha dimostrato – ma svuota la democrazia e le ribalta sopra l’influenza che gli interessi particolari hanno sui partiti. Sappiamo forse chi ha salvato le licenze dei balneari, per esempio, o il superbonus del 110 per cento, ma non sappiamo perché: se la democrazia è la forma governo nella quale il potere deve spiegarsi pubblicamente, queste non sono state scelte democratiche (e sono infatti difficilmente giustificabili).
Parlamentari liberi
L’ideale a cui tendere sono parlamentari liberi, invece, il cui lavoro sia organizzato – anche con rigida disciplina – da partiti a cui li leghino non il potere arbitrario dei capi ma l’adesione a una cultura politica, a una visione del bene comune, a un programma politico.
La distanza che ci separa da questo modello è ampia ma non insuperabile: in altri parlamenti, del resto, i servi sono più rari. Il primo passo è chiaro e ineludibile: serve una legge elettorale che restituisca agli elettori il potere di scegliere gli eletti. Poi bisogna tornare al finanziamento pubblico dei partiti, assicurarne la democrazia interna, e trovare il modo di elevare la qualità dei media e della discussione pubblica. È un vasto programma, certo, ma rinunciare significa rassegnarsi a camere elettive largamente servili.
Andrea Capussela è autore di Declino Italia, Einaudi 2021, e di The Political Economy of Italy’s Decline, Oxford University Press 2018 (edizione italiana Declino. Una storia italiana, Luiss University Press 2019).
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