Sul premierato, intellettuali, giornalisti e politici di entrambi gli schieramenti hanno abbozzato una proposta che muove da apprezzabili intenzioni. Schematicamente tre: 1) segnalare le contraddizioni e la bizzarria del premierato disegnato dal governo (ancorché il testo sia tuttora oggetto di estenuanti discussioni dentro la stessa maggioranza); 2) riconoscere che vi sia un oggettivo problema di congegni atti a stabilizzare i governi; 3) adoperarsi al fine di propiziare una larga convergenza onde evitare il varo di una riforma di parte (quella del governo) per sua natura destinata a un confronto/scontro referendario.
Sia permesso un giudizio sul metodo e sul merito della iniziativa “terzista”. Il metodo, ripeto, può essere apprezzato. Mettendo tuttavia a verbale la responsabilità della maggioranza di avere impostato male la questione: di nuovo una riforma costituzionale di rilievo avanzata dal governo e dunque per definizione di parte; il palese baratto tutto politico tra i partner di governo di cui è figlia la riforma (voluta dalla premier e da FdI in cambio dell’autonomia differenziata cara alla Lega e alla separazione delle carriere quale vecchia bandiera di Fi. Non esattamente un coerente disegno ispirato a un alto patto costituente); la rappresentazione della proposta come “madre di tutte le riforme” atta a condurci a una nuova Repubblica accompagnata dalla dissimulazione di essa quale intervento minimalista che non intaccherebbe gli equilibri costituzionali e segnatamente i poteri di parlamento e Quirinale.
Una contraddizione e, insieme, una bugia. Un’enfasi che non rassicura circa il messaggio neppure tanto implicito ovvero l’archiviazione della prima (?) Repubblica disegnata dai costituenti e dal sistema di valori che essi ci consegnarono. Su questi presupposti di una dichiarata cesura – ne converranno i promotori della menzionata iniziativa bipartisan – è difficile e persino azzardato chiedere, come essi fanno, che ci si concentri esclusivamente sul premierato, cioè che non ci si interroghi sul disegno complessivo di riforme tutt’altro che minimaliste concepite e condotte avanti insieme e da portare a compimento entro la presente legislatura.
Il nodo dello scioglimento delle Camere
Ma veniamo al merito. Intanto segnalo che la titolazione spiritosa e colorita della proposta – “non famolo strano” – immagino suggerita dai comunicatori in origine era un’altra ovvero «il nostro premier è più forte del vostro», chiaramente riferito al parto del governo. Titolazione, a ben vedere, più appropriata ed eloquente: per certi versi vi si disegnano poteri persino superiori. Semmai si razionalizza la proposta del governo, la si ripulisce da evidenti sgrammaticature e incoerenze. A cominciare dalla stramberia del secondo premier non eletto ma, paradossalmente, dotato del potere più dirompente: quello dello scioglimento delle Camere. Una sorta di malcelato diritto/incentivo all’”imboscata” ideato dalla mente diabolica di Calderoli al fine di temperare il potere spropositato del/della premier investito/a dal voto popolare. A conferma che ci si rende conto della deriva verso un “premierato assoluto”, cioè verso una esorbitante concentrazione del potere in capo a una persona.
Il contesto e gli esempi di Usa-Francia
La soluzione ideata dai “terzisti” è quella della “indicazione” sulle liste del nome del candidato premier. Una soluzione già in certo modo sperimentata quando, a cavallo del duemila, si coltivava la speranza nell’evoluzione di un bipolarismo civile. Una soluzione, ancora, che, presso il centrosinistra, è accreditata in quanto già adombrata ella tesi n. 1 del programma dell’Ulivo prodiano. Ma sono trascorsi trent’anni, le condizioni e il clima sono cambiati. Coloro che un po’ presuntuosamente amano chiamarsi riformisti (aggettivo passe-partout) per bollare altri come massimalisti non dovrebbero avere complessi nel ripensare soluzioni ideate tre decenni orsono.
Anche le riforme vanno contestualizzate. Lo hanno notato, tra gli altri, Zagrebelsky, Flick, Cheli, Manzella, G. La Malfa. Non si deve provare vergogna nel notare che nella cultura e nella società di oggi – atomizzata, divisa, dominata da sistemi di comunicazione suscettibili di facile manipolazione del consenso – e in un tempo nel quale le democrazie un po’ ovunque sono insidiate e corrose da populismi e sovranismi di vario conio, è d’obbligo vigilare su soluzioni istituzionali che anziché arginare tali derive le favoriscono.
Domando: possiamo non interrogarci su ciò che è accaduto, negli anni recenti, dagli Usa alla Francia, ove le elezioni dirette del presidente capo dell’esecutivo non mediate dai parlamenti hanno prodotto laceranti divisioni verticali e tensioni nelle piazze, acuendo la crisi delle loro democrazie?
Meglio il modello tedesco
In concreto: non basta eccepire sulla formale elezione popolare diretta del premier. Mettere il suo nome sulle liste a lui collegate, nella sostanza, non fa grande differenza. Ciò che conta è che, in entrambi i casi, si priva il presidente della Repubblica di discrezionalità nell’esercizio dei suoi due principali poteri: la scelta dell’incarico alla persona cui affidare la formazione del governo e il potere di scioglimento delle Camere. Di tutti il più cruciale.
Meglio ispirarsi al modello del cancellierato tedesco, il più compatibile con la nostra forma di governo parlamentare. Altrimenti – non è un delitto – meglio mettere nel conto il referendum confermativo (inteso come oppositivo) contemplato dalla Costituzione vigente e attrezzarsi al confronto con motivazioni limpide ed efficaci che potrebbero essere svilite se, già ora, contentandosi di esili ritocchi al premierato assoluto, si cede sul terreno sdrucciolevole della cultura di cui esso è figlio.
Quella della disintermediazione parlamentare e della verticalizzazione/personalizzazione del potere. La cosiddetta “capocrazia” (copyright di Ainis). Trattasi di opposte visioni, arretrando si trasmette l’impressione di non avere fiducia nelle proprie ragioni, di perdere senza combattere (democraticamente).
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