- Le parole di Draghi sull’ambiente, così chiare e drammatiche, storiche, sono passate sottotraccia, proprio qui in Italia.
- Ma forse non è un caso. L’Italia è indietro nel rispetto degli accordi di Parigi e siamo stati anche fra i paesi che più hanno frenato sul piano della Commissione europea “Fit for 55”, che punta a ridurre del 55 per cento le emissioni di gas serra entro il 2030.
- Siamo indietro anche culturalmente, nella discussione sulla transizione ecologica e nella comprensione di quello che tutto ciò comporta, per l’economia e la politica. E il silenzio sulle parole di Draghi lo conferma.
«Se continuiamo con le politiche attuali, raggiungeremo quasi 3 gradi di riscaldamento globale entro la fine del secolo. Le conseguenze di un tale aumento delle temperature sarebbero catastrofiche».
A dirlo è stato Mario Draghi, il 17 settembre al forum delle maggiori economie sull’energia e il clima, promosso da Joe Biden. E ha aggiunto: «Dobbiamo onorare gli impegni presi in materia di clima e, in alcuni casi, essere pronti a prenderne di più audaci. E dobbiamo sostenere sia i nostri cittadini, sia i paesi in via di sviluppo, nell’affrontare questa onerosa transizione».
È una presa di posizione molto chiara, forte, con accenti drammatici, pronunciata davanti a tutto il mondo dal leader più autorevole non solo in Italia, ma forse oggi in Europa.
Dichiarazioni che, se prese sul serio, presuppongono un cambio di paradigma profondo: nel modello di sviluppo, nel modo di pensare l’economia e il rapporto fra pubblico e privato e il ruolo della politica, e anche nei rapporti internazionali a partire dalle responsabilità dei paesi avanzati. Anche perché sulle conseguenze catastrofiche Draghi ha perfettamente ragione.
Eppure questa volta le parole di Draghi sono passate sottotraccia. Proprio in Italia. Proprio nel paese governato da Draghi e che avrebbe bisogno di una sonora sveglia sui temi ambientali. A tutti i livelli. Ma forse, a ben vedere, proprio per questo.
L’Italia è indietro nel rispetto degli impegni. Si pensi che noi abbiamo un «Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici» che risale al 2018, non prevede nemmeno una pianificazione finanziaria e una possibile allocazione dei fondi, ed è ancora in attesa di approvazione definitiva.
Il «Piano nazionale integrato sull’energia e il clima» stabilisce gli obiettivi da qui al 2030 sulla riduzione delle emissioni e la transizione energetica: approvato, quello sì, nel gennaio 2020, è stato però già superato dal varo, nel luglio 2021, del Piano della commissione europea “Fit for 55”, che si propone di ridurre del 55 per cento le emissioni di gas serra entro il 2030, rispetto al livello del 1990.
Noi siamo fermi all’obiettivo del 40 per cento, e in questi mesi siamo stati fra quelli che più ha fatto resistenza al nuovo piano della Commissione: alcuni imprenditori hanno detto che c’era bisogno di più tempo, che erano obiettivi eccessivi, e la gran parte della politica si è loro accodata.
L’esatto contrario del significato delle parole di Draghi (che pure la gran parte di quei politici sostengono entusiasti, e pure gli imprenditori).
Le parole dopo i fatti
Non solo. Come ha ricordato Pier Luigi Petrillo su questo giornale,
ci sono ben 20 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi che si potrebbero tagliare, ma nonostante gli approfondimenti già realizzati e le proposte già messe in campo non se ne è fatto ancora nulla: il tema non pare nemmeno una priorità nella riforma fiscale di cui si discute da mesi, e che ora è passata dal parlamento al governo.
Più in generale, la transizione energetica, la sfida decisiva del nostro secolo, avrà successo solo se fondata sulla partecipazione e il consenso dei cittadini.
Le parole di Draghi avrebbero potuto essere un’occasione per avviare questo dibattito, finalmente: ma è accaduto l’opposto. Forse poi, piuttosto che accodarsi alla difesa dello status quo, occorrerebbe cominciare a creare le condizioni per formare quel consenso, fondamentale in ogni paese democratico.
Per esempio realizzando politiche di welfare e di riconversione industriale che compensino i perdenti della transizione, cioè coloro che non avranno più lavoro; aumentando gli investimenti sulle nuove fonti di energia, sulla tutela del territorio, sull’adeguamento infrastrutturale per il passaggio all’elettrico.
Sono politiche di spesa, non nascondiamocelo: probabilmente, per rendere la transizione energetica socialmente sostenibile avremo bisogno di aumentare il debito.
Ecco, forse conviene mettere in chiaro anche che d’ora in poi dovremmo preoccuparci di lasciare ai nostri figli un pianeta in cui poter vivere, innanzitutto, prima ancora che i conti in ordine (certo, tutti vorremmo fare “debito buono” che si ripaga con la crescita, e in parte è possibile: ma anche qui bisogna essere onesti, non è e non sarà sempre così e la priorità deve essere salvare il pianeta).
Prendere sul serio le parole di Draghi. Che poi, non è un dettaglio, si tratta del presidente del Consiglio. Facciamo seguire alle parole i fatti.
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