Il Medio Oriente attraversa una fase di fragilità ma anche di opportunità. Se in Siria e Libano l’arco sciita è spezzato, Israele si sta dimostrando incapace di vincere proponendo guerre a oltranza. Intanto Erdogan fa l’equilibrista giocando su mille tavoli. In questo scacchiere impazzito, l’Italia potrebbe dire la sua e recuperare autorevolezza
I quesiti sulla Siria si moltiplicano: cosa faranno i nuovi padroni? Come verranno trattate le minoranze? Quale l’impatto sul Libano? Quale l’atteggiamento dei vicini: Israele, Turchia, Iran? E infine: cosa può fare l’Italia?
Il nuovo Medio Oriente sta nascendo immerso negli interrogativi. Appare chiaro che nessuno si fidi di nessuno e tutti si posizionino in un prudente attendismo. Domina la paura dell’incognito: per questo Israele bombarda la Siria. Casomai c’è da chiedersi perché non ne approfitti per colpire i siti nucleari dell’Iran: ormai nemmeno gli Usa potrebbero trattenerlo.
Sorprende l’assordante silenzio saudita. Il principe Mohammed Bin Salman (MBS) non dice nulla di essenziale da settimane, salvo far trapelare che i grandi progetti di Vision 2030 saranno ridimensionati (inclusa l’Expo). Non stupisce invece il tremore egiziano e di altre dittature militari arabo-nazionaliste: la caduta di Assad porta per loro una promessa di serio pericolo.
Se una cosa appare con evidenza è la crudeltà di questo tipo di regimi e della loro repressione. Le camere di tortura egiziane, così tanto utilizzate dal sistema delle rendition americane (rapire clandestinamente dei sospetti in paesi stranieri per affidarli agli esperti egiziani di sevizie), non hanno nulla da invidiare all’orrore del carcere di Sednayah.
Il ricatto “lo facciamo per difendere l’Occidente dai terroristi” non funziona più, anche se in Afghanistan gli occidentali hanno fatto l’opposto. L’alleanza tra regimi nazionalisti laico-musulmani e Occidente ha cessato di esistere ed ognuno va per la sua strada.
Israele non sa vincere
Israele ha svelato la debolezza dell’arco sciita ma non sa vincere: invece di smettere ed ergersi vittorioso, continua la sua guerra infinita che alla fine gli si ritorcerà contro. Non dipende solo dall’esigenza del primo ministro di salvarsi dai tribunali: si tratta di un profondo cambiamento politico-antropologico della classe dirigente israeliana (e in parte anche del popolo), contaminata da suggestioni eccezionaliste e suprematiste.
Questo tipo di Israele si concepisce solo al mondo e in diritto di negare ogni limite imposto da regole e leggi internazionali. Finirà male perché nessuno stato è un’isola e Israele non fa eccezione.
La Turchia avanza sul terreno minato delle contraddizioni orientali: è una mentalità che diventa cultura e si fa politica. In altre parole ciò significa che si può fare tutto e il suo contrario contemporaneamente: negoziare con la Russia ma anche combatterla; stare con la Nato ma acquisire armi altrui; aiutare l’Europa con i migranti ma imbastire una specifica guerra di civiltà; scambiarsi informazioni con Israele ma restare ostile; allearsi agli stati arabo-sunniti ma fomentare i fratelli musulmani; aiutare i jihadisti ma dividerli; salvare le minoranze ma condizionarle e così via…
Recep Erdogan ha dimostrato di sapere manipolare storia e geopolitica con abilità, ma fino a quando? Anche la Turchia non è un’isola e ha bisogno degli altri. In Siria già emergono i primi segnali di divisioni interne tra vincitori: fratelli musulmani contro salafiti; competizione tra le varie fazioni rivoluzionarie; milizie del sud (Daraa) versus quelle del nord (Idlib).
Lo stato è collassato e molti ex soldati ed ex funzionari del regime decaduto sono spaventati, senza salario né sicurezza: potrebbe verificarsi una situazione all’irachena quando gli ex baathisti nel segreto crearono l’Isis (inizialmente come forma di autodifesa).
Il ruolo italiano
La storia recente del Medio Oriente è piena di errori fatali ripetuti all’infinito… In Libano gli oppositori degli Hezbollah credono venuto il loro turno senza considerare che gli sciiti, pur indeboliti, rimangono demograficamente i più numerosi. Meglio sarebbe ritrovare un patto nazionale funzionale piuttosto che perdersi in faziose rivalse.
L’unità libanese è l’unica cura all’attuale crisi politico-economica. Su questo fronte l’Italia potrebbe dire la sua: è presente in Libano da decenni con i suoi soldati e ora ha anche un ambasciatore a Damasco. Ricucire anche solo una parte di Medio Oriente con il metodo del dialogo potrebbe dare al nostro paese un’autorevolezza unica in un quadrante strategico del futuro. Basta dimostrarsi disinteressati e onesti.
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